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INTERVISTA. "Dal governo Meloni una manovra confusa tecnicamente, ma ideologicamente molto chiara. E chi perderà il sussidio si indebiterà e sarà ancora più ricattabile. Togliere il «reddito di cittadinanza» non significa trovare un lavoro, servono tempo e investimenti"

 La sociologa Chiara Saraceno

Professoressa Chiara Saraceno nel libro con David Benassi e Enrica Morlicchio «La povertà in Italia» (Il Mulino) parlate di «aporafobia», cioè di paura o disgusto dei poveri. Quanto è «aporafobico» il governo Meloni che taglia il «reddito di cittadinanza»?
Qui c’è proprio il disprezzo, ancora di più che la paura. Un disprezzo molto diffuso a destra a sinistra, e al centro. Pensi alla filosofia del divano che ci ha tormentato in questi anni. L’«aporafobia» riguarda chi dorme per strada. Nei confronti di chi prende il reddito di cittadinanza c’è una mancanza di conoscenza da cui nasce il disprezzo. È impressionante il modo in cui vengono viste queste persone, dai media e dalla popolazione. L’altro giorno ho dovuto mettermi un simbolico bavaglio quando ho sentito delle signore che

dicevano che devono andare a zappare la terra. C’è persino un po’ di invidia sociale dicendo che loro ricevono qualcosa e gli altri no. Il che non è vero.

La presidente del consiglio Meloni ha definito «coraggiosa» la legge di bilancio. Che coraggio c’è a dare l’ultimatum a 660 mila persone ?
Letta e Conte scenderanno in piazza, ma non trovo che il governo tema il conflitto sociale. Si sentono coraggiosi perché si sono costruiti il nemico dei percettori del reddito di cittadinanza e chi sostiene la necessità di avere questo strumento sia pure da correggere e io sono tra quelli. Forse pensano che perderanno voti al Sud, anche se non ne hanno presi tanti, di certo non quelli dei percettori del reddito. Anzi ne prenderanno persino qualcuno in più. Basti pensare a quello che dicono quelli del «Terzo polo».

Ma è sicuro che si tratti di 660 mila persone?
I numeri sono ballerini. Questi sono i beneficiari del «reddito» che hanno firmato il «patto per il lavoro» e avrebbero dovuto essere chiamati dai centri per l’impiego. Se guardiamo i dati Inps, e a quelli dell’Anpal, scopriamo che esiste una larghissima maggioranza persone con qualifiche molto basse, hanno la terza media, talvolta nemmeno quella. Ci sono giovani, e meno giovani. Sono molto lontani dal mercato del lavoro, hanno storie di lavoro irregolare. Il passaggio dall’essere occupabile a occupato non è automatico. Non è togliendogli il «reddito» che troveranno un lavoro né ciò consentirà di mantenere una famiglia. Questo non significa non fare niente, ma molto di più. Ma ci vogliono tempo e investimenti. E nel frattempo queste persone devono mangiare.

Che cosa faranno queste persone da agosto 2023?
Probabilmente quello che facevano prima: si arrabbateranno, si indebiteranno, andranno alla Caritas, faranno lavoretti, incentiveranno il lavoro nero, saranno ricattabili.

Toglieranno il «reddito» solo alla persona «occupabile» e non all’intera famiglia?
Se lo togliessero solo al beneficiario occupabile, a uno dei due genitori, o a un figlio adulto, la famiglia dovrà vivere con una quota in meno di «reddito» e verrebbe ridotto il benessere del nucleo. I criteri non sono ancora esplicitati. Per ora si tratta di una manovra confusa tecnicamente, ma ideologicamente molto chiara.

Il taglio sarà compensato dall’aumento del 50% dell’assegno unico per il primo anno della vita del bambino?
L’aumento è positivo, ma non dovrebbero farlo solo per il primo anno e mantenerlo più a lungo per il terzo figlio in sù. Ma non c’entra nulla con il reddito di cittadinanza. Non c’è un travaso automatico. A parte il fatto che si aggiungono 50 euro al mese rispetto a un reddito medio a famiglia di 550 euro. Riuscirà a mantenere l’intera famiglia? Non vedo la compensazione.

La ministra del lavoro Calderone dice che dovranno frequentare sei mesi di formazione obbligatoria…
Bene, ma avranno degli sbocchi? Troveranno una domanda di lavoro corrispondente? E se non la trovano? Abbiamo l’esperienza della «Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori» (Gol) che fa parte del «Pnrr». Ha coinvolto 300 mila persone tra cui percettori del reddito di Naspi e Discoll. Nonostante la metà di questi sia stata messa in percorsi di reinserimento lavorativo, e dunque siano «occupabili», sono stati in pochi a trovare un’occupazione. Ripeto, per trovare lavoro ci vogliono tempo e investimenti, non punizioni e squalifiche sociali.

Quale misura alternativa adotterà il governo?
Sembra che vogliano rifare una misura per la povertà assoluta. Dare cioè poco solo a determinate categorie di poveri. Potrebbero dare fondi ai comuni, senza una garanzia di criteri di base uguali sul territorio nazionale. Non è neppure chiaro se permetteranno nuove domande, o se la misura andrà in esaurimento. Spero di no perché lascerebbe fuori un sacco di gente. La povertà è in aumento, non so se gli è chiaro, con l’aumento delle bollette e le crisi.

Si fa un gran parlare di «lavoro». Ma se il lavoro non c’è, o se è precario, che succede?
Loro dicono che esiste, e tirano fuori gli imprenditori che non trovano manodopera. Ma è una balla, anche perché offrono salari troppo bassi oppure perché mancano le specializzazioni che non sono quelle dei percettori del reddito. Chi cerca un operaio specializzato in Friuli lo trova tra i percettori del reddito in Calabria? Temo di no, non funziona così.

Sebbene la povertà aumenti a ogni legislatura si cambia tutto. Perché?
È un classico italiano. Ogni governo pensa di reinventare strumenti che sarebbe meglio aggiustare e implementare. Lo fecero i Cinque Stelle e la Lega con il precedente «reddito di inclusione». Se però nei governi precedenti Cinque stelle e Pd avessero lavorato a una riforma come indicato dalla nostra Commissione la situazione ora potrebbe essere diversa.