Torna il Working Title Film Festival. A Vicenza, dall’11 al 16 novembre, la settima edizione della rassegna diretta da Marina Resta
dal film When we figth
Torna a Vicenza l’appuntamento con il Working Title Film Festival – Festival del cinema del lavoro, arrivato alla sua settima edizione, da lunedì 11 a sabato 16 novembre. Le location ospiteranno le proiezioni e i dibattiti dell’evento promosso dall’associazione Laboratorio dell’inchiesta economica e sociale Aps, con la direzione artistica di Marina Resta. Undici anteprime italiane, una europea e una curata selezione di film da tutto il mondo, per costruire un racconto collettivo del mondo del lavoro.
Marina Resta, il Working Title Film festival è interamente dedicato al tema del lavoro e spegne quest’anno otto candeline. Vuol dire che è un tema di cui il cinema si occupa sempre di più?
Sì, sicuramente. Il lavoro fa parte della vita di tutti e nei film lo vediamo declinato nelle modalità più diverse. Per esempio i lavori meno tradizionali, che sono emersi soprattutto a partire dalle edizioni post pandemia. In questa edizione ci sono arrivati molti più film, sia di finzione che di genere documentaristico, dai quali emergono in particolare alcuni argomenti legati all’attualità. Per esempio il lavoro di rider, in Life is a game. Un film molto interessante è Avitaminosis, di Kateryna Ruzhyna, girato durante la pandemia dalla regista, ucraina, che viveva in Repubblica Ceca per motivi di studio e ha deciso di mettersi in scena, documentando il suo lavoro di venditrice di call center, di prodotti al limite della truffa. Dal film viene fuori con forza tutto il tema delle attività online, che anno acquisito centralità proprio a partire dal lockdown. Ma un altro aspetto interessante, dal punto di vista degli accadimenti geopolitici, è che il film documenta anche di come, appena finita la pandemia, la ragazza resti comunque bloccata e non possa tornare in Ucraina a causa della guerra.
A proposito di pandemia, la sensazione è che siamo stati protagonisti di una specie di rivoluzione delle nostre esistenze, eppure il cinema degli ultimi anni non sembra interessato a raccontarla. C’è ancora bisogno di metabolizzare cosa sia stato il lockdown, di prendere le distanze? O, al contrario, l’abbiamo talmente raccontato vivendolo che non resta nient’altro da dire?
Il fatto che durante la pandemia ci sia stato un surplus di immagini create, diffuse e condivise ha sicuramente inciso. Abbiamo abusato delle opportunità del digitale. Sia da professionisti, che da persone che non fanno questo mestiere, ma avevano solo bisogno di uno sfogo. Probabilmente ne è seguito un rigetto, anche nei confronti dell’utilizzo delle piattaforme, che durante la pandemia aveva raggiunto l’apice. Penso però che sia anche vero che per confrontarsi con un evento epocale da regista, da autore, ci sia bisogno di prenderne le giuste distanze. Qualcuno in realtà lo ha fatto, ha provato a trasfigurarla, raccontando esplosioni di virus sconosciuti o situazioni di chiusure forzate, ma poche cose sono uscite che parlassero veramente di quanto è successo. Forse dovremo aspettare qualche anno. O forse sì, abbiamo già detto tutto, e anche troppo, mentre lo vivevamo. Senza, però, dimenticare, un altro aspetto: sono subito subentrate nuove emergenze ad attirare la nostra attenzione, ovvero le guerre.
Il Working Title ha un grande pregio, ovvero quello di offrire una selezione internazionale molto ampia a livello cinematografico, e di conseguenza uno spaccato sociale, culturale e politico molto vario. Esiste un filo rosso nella rappresentazione del lavoro?
Quest’anno c'è tra una prevalenza di America Latina, con film dalla Costa Rica, dal Perù, dal Venezuela, Cile e Colombia. E ci si può divertire a scovare consonanze nelle rappresentazioni di culture lontanissime tra di loro. Per esempio con la Svizzera. In alcuni casi per il tipo di linguaggio scelto, in altri per le tematiche. Il lavoro è il tema centrale, ma poi ci sono i contesti sociali e politici, che pur restando sullo sfondo diventano oggetto di narrazione e dunque di riflessione. Se parli di lavoro, puoi parlare anche di guerra, di pandemia, di politica, di regimi più o meno democratici.
E questo perché il lavoro è ancora componente essenziale dell’esistenza dell’individuo, ma anche pilastro della società in cui vive.
Sì, anche se tutti gli altri sono degli elementi che magari rimangono fuori campo, però in qualche modo ci sono. Penso per esempio a Working Class goes to hell, film di finzione serbo, che usa il genere horror per portare sullo schermo il recente passato dai Balcani, ma partendo da un incidente mortale all’interno di una fabbrica. Un incidente probabilmente doloso, e con oscuri fini speculativi, per il quale le famiglie delle molte vittime chiedono giustizia e per riuscire a ottenerla chiedono ausilio al soprannaturale. Il film parla di diritti calpestati, di corruzione, di collusione tra politica e imprenditoria. Ma lo fa attraverso un genere, come l’horror, che ben si presta a trasfigurare certe inquietudini personali e collettive.
Sono molte le sezioni tematiche, ma c’è anche spazio per ragionamenti sullo stato di salute dell’industria cinematografica e del cinema indipendente...
Sì, nello specifico avremo due panel all’interno del festival. In uno si discuterà di come si possa fare storytelling d’impresa e dunque ottenere un valido prodotto audiovisivo promozionale per l’azienda. Nell’altro invece ci dedicheremo al cinema indipendente, tra modelli, opportunità, fattibilità. Negli ultimi vent’anni il modo di produrre è molto cambiato, anche in seguito alla nascita e all’implementazione delle film commission regionali. Questo ha permesso di spalmare maggiormente le produzioni, al livello territoriale e di budget, al di fuori dei soli confini romani, arrivando a girare anche in territori periferici, impiegando professionalità locali. Si sono diffuse maggiormente professioni come quella del location manager e si è arrivati a girare anche in luoghi che non avevano mai avuto prima una storia di industria cinematografica. Questo può favorire modelli di produzione dal basso o cooperativistica. Ma parlare di produzione vuol dire parlare anche delle persone che lavorano nell’ambito della filiera cinematografica, che è molto capillare e articolata.