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Medio Oriente Riecheggia la dottrina neo-con dell’effetto domino. Gli interessi degli Usa e di Israele convergono. Ma Tel Aviv si troverà esposta al rischio storico del sovraccarico

Il Medio oriente  su un folle tavolo da gioco Carri armati israeliani al confine con il Libano – foto Ap/Baz Ratner

Si chiama guerra. Arriva in forma di ondate di missili su larga scala, dopo il profluvio di eufemismi usati da media e diplomatici per definire i massacri di civili, le uccisioni mirate e le «invasioni limitate». Finisce la pazienza strategica di Teheran: gli ayatollah ritengono che stare fermi, mostrandosi una tigre di carta, comporti perdite più elevate che reagire.

L’escalation bellica investe le sponde del Mediterraneo e realizza ciò che era impensabile. Davanti al carico di sofferenze e alle incognite che presenta, non si può che restare sbalorditi per il ritorno dello sguardo cinicamente orientalista di chi vede nella guerra un’opportunità. Dipingendo così una regione barbara nella quale, grazie all’impiego spregiudicato della violenza, è data oggi l’occasione di riscrivere la Storia, in barba ai vincoli del diritto e della giustizia internazionale. Le parabole di Iraq, Afghanistan, Libia sembrano cosa sepolta, incapace di parlare al presente, tanto che riecheggia la dottrina Bush, quella dei neo-con e dell’effetto domino. Ieri ha parlato l’immancabile Bernard-Henry Levy: «Leggo che il Libano sarebbe sull’orlo del collasso. No! È sull’orlo del sollievo e della salvezza! La capacità di rimodellare il Medio oriente in questo momento è illimitata».

Il governo israeliano cavalca questa narrazione e il momentum militare, fiutando l’occasione d’oro, con Netanyahu che ha annunciato agli iraniani l’imminenza della liberazione, in uno scenario di destabilizzazione del regime.

Hezbollah, ugualmente, vede il combattimento scendere a terra, dove la resistenza sa combattere (le brigate al Qassam non sono sparite a Gaza): fiuta l’ora della resa dei conti e proverà a trascinare Tsahal in un sanguinoso scontro protratto.

NEL MEZZO ci sono un Libano esangue e l’intero Medio oriente, cominciando con la Siria. Lo scenario forse più ottimistico vede un arretramento di Hezbollah, rimpiazzato da un esercito libanese rafforzato e coperto da forze e accordi internazionali. Ma quanto è davvero incapacitato Hezbollah? Ogni tentazione di liquidare il Partito di Dio agisce sulle suture che tengono insieme il Libano, riportandoci agli scenari della guerra civile, e sollevando la più ampia questione sciita, che attraversa anche l’Iraq (funerali simbolici di Nasrallah si sono svolti nelle principali città irachene).

Ogni linea rossa tracciata dalla Casa Bianca si è rivelata rosa, ammesso che il Segretario di Stato Blinken le abbia davvero volute marcare. Netanyahu sfrutta l’incertezza della finestra elettorale americana. Ore prima che l’invasione del Libano iniziasse, Biden si dichiarava per il cessate il fuoco; ad invasione iniziata, ribadiva il sostegno all’azione di Israele. Eccolo, il messaggio della Grande Potenza all’alleato: preferiamo di no, ma se decidete di ignorarci, andate avanti e passateci sopra.

ALLARGANDO IL CAMPO, emerge una logica più profonda, nella quale gli interessi di Washington e Tel Aviv convergono. Da tempo gli Usa manifestano, senza riuscirci, l’intenzione di estricarsi dal Medio Oriente, oltre che di tenere Israele al proprio fianco in un quadro geostrategico in mutamento. A 25 anni dalla scadenza che gli accordi di Oslo prevedevano per l’implementazione, Israele ha sancito il diritto esclusivo alla terra per il popolo ebreo, seppellendo la questione.

L’ascesa politica e le gesta belliche di Netanyahu nascono nel rovesciamento dell’idea, maturata in decenni di conflitto e sottoscritta a Oslo da Yitzhak Rabin, che Israele dovesse in qualche modo venire a patti con i palestinesi. Questo rovesciamento scarica ulteriore violenza sulla frammentazione della nazione palestinese, puntando alla sua marginalizzazione politica, demografica e territoriale, per arrivare, conseguitane l’irrilevanza, alla normalizzazione delle relazioni con il mondo arabo (accordi di Abramo). In questo quadro di pacificazione, agli Stati Uniti è infine consentito guardare altrove.

E COSÌ ecco tanti commentatori intenti a disegnare presunti effetti domino per la regione, un Medio oriente distante e bisognoso di terapie, mentre la realtà è che nessuno dei principali attori sembra in grado di poter fermare la guerra e proporre una visione politica del futuro che risponda a criteri di realtà.

L’Asse della Resistenza non ha un disegno politico discernibile: non solo la teocrazia iraniana e Assad, ma milizie come Hezbollah si sono sistematicamente macchiate di gravi crimini e devono parte della loro popolarità all’aver saputo tener testa all’espansione di Israele.
La comunità internazionale ripete il mantra dei due popoli due stati, che non ha più alcun ancoraggio reale, mentre evita di affrontare esportazione di armi o rapporti economici (si pensi alla doppiezza della Turchia). L’Occidente, che difende l’ordine internazionale rules based, quando si tratta di Israele si aggroviglia nei propri doppi standard, un rigurgito maldigerito di dibattiti su antisemitismo, islamofobia, colonialismo.

Israele consegue successi tattici: arriverà forse, non si sa a che prezzo, a una vittoria strategica, ma si troverà esposto al rischio storico di sovraccarico (territoriale, economico, militare). Decapitare i propri nemici non si traduce ipso facto in vittoria politica. Hamas ed Hezbollah non sono nati dal niente. Ancora una volta, dopo decine di migliaia di corpi dilaniati, la guerra si allarga e si approfondisce con la risposta iraniana.

Qualcuno ritiene che ci possa essere pace con oblio dei palestinesi: l’illusione che la pace arriverà attraverso nuova distruzione, proprio grazie al silenzio sui crimini di guerra, elevati a monito e fondamento