La notizia più importante delle elezioni in Sardegna è la sconfitta di una destra che sembrava imbattibile. La notizia più interessante è invece la vittoria di una coalizione che ancora non riesce a vedersi come tale e alla quale non sappiamo nemmeno che nome dare, perché «centrosinistra» (i 5 Stelle il centro e il Pd la sinistra?) evidentemente non è quello giusto. Il successo di domenica, assai poco previsto, costringe i riottosi alleati a cercare, a questo punto, idee e strategie comuni.
In una gara bisogna innanzitutto conoscere le regole del gioco. Elezioni dirette con il maggioritario si possono vincere solo con un buon candidato, candidata in questo caso, e correndo uniti. Quello che Pd e 5 Stelle non hanno fatto a settembre 2022 alle politiche, Letta e Conte decidendo di partire sconfitti, lo hanno fatto in Sardegna e hanno vinto. Sembra strano ma quando dice che la destra non ha perso voti ha ragione Salvini, uno dei due grandi sconfitti – l’altra è evidentemente Meloni che ha voluto un candidato scarsissimo e ora è esposta ai rancori dei suoi alleati senza poter vantare alcun tocco magico. La destra ha conservato i voti delle precedenti regionali e ne ha persino guadagnati rispetto alle politiche vittoriose di settembre 2022 (aumentando le liste, da quattro a nove). Ma ha perso perché gli avversari questa volta hanno fatto la corsa uniti. Anche alle politiche, in Sardegna, Pd e 5 Stelle avevano, sommandoli, più voti delle destre che però hanno vinto in tutti i collegi
uninominali sia alla camera che al senato.
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Per avere successo alle regionali e dovunque ci sia l’elezione diretta serve una candidatura credibile alla presidenza, Pd e 5 Stelle se la sono data senza le elezioni primarie. Anche questa è una notizia per i tifosi del modello americano: non è detto che con le primarie sarebbe stata scelta Todde, pare anzi che Soru avrebbe avuto delle possibilità. È finita che Todde ha attratto voti anche oltre la sua coalizione e Truzzu ha respinto persino quelli. Molti pur di non votarlo sono rimasti a casa. Dunque è stata intelligente la segretaria del Pd ad accettare la candidatura della ex viceministra grillina, malgrado tutti gli avversari dell’accordo con i 5 Stelle, interni ed esterni al Pd, l’abbiano accusata per questo di aver ceduto a Conte, di essersi arresa. E malgrado Conte e i 5 Stelle facciano molto poco per aiutarla, anche in queste ore scolpendo l’aggettivo «nostra» accanto al nome di Todde in mille comunicati e dichiarazioni.
Del resto abbiamo capito tutti che se questa volta l’alleanza si è fatta è stato soprattutto per la caparbietà di Schlein. Non è un caso che rispetto alla scelta suicida di correre separati alle politiche il Pd abbia cambiato leader e i 5 Stelle no. E non è detto che la rondine sarda annunci una primavera, in Piemonte ad esempio a quasi tre mesi dal voto non ci sono ancora né la coalizione né la candidatura ed è assai probabile che per le resistenze dei 5 Stelle la Sardegna resti un’isola felice.
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Gli elementi caratteriali e la lungimiranza politica naturalmente contano, ma non sono tutto. C’è anche una ragione strutturale per la quale l’alleanza tra il Movimento e il Pd non è semplice ed è quella che i due partiti non si vedono come complementari, in grado cioè unendosi di coprire uno spettro, o un campo, più largo, ma come sovrapponibili. Dunque in continua competizione per quale dei due possa mangiare tanto o poco dell’elettorato dell’altro. Questo accade perché nessuno dei due ha un’identità netta e chiara e dunque i loro confini diventano sfumati. Conte si lascia volentieri andare a nostalgie dell’epoca in cui governava con Salvini, Schlein si preoccupa, eccessivamente, di quelli che nel gruppo dirigente del Pd rimpiangono le politiche di Renzi.
La competizione è proiettata nel tempo per cui più che alle regionali prossime si guarda alle europee (legge elettorale proporzionale) e persino alle politiche, quando Conte immagina di potersi riproporre come candidato premier. D’altronde continua a pensarsi più come istituzione che come capo di partito, per esempio quando dichiara solenne che non può scegliere tra Trump e Biden per non guastare i rapporti con gli Stati uniti.
Non sarà facile. Noi siamo convinti che se Schlein, che guida il Pd ormai da un anno, svoltasse davvero con proposte più avanzate, per fare qualche esempio, sulle spese militari e l’invio delle armi in Ucraina, la riduzione dell’orario di lavoro e delle forme di precarietà, lo smantellamento dell’apparato repressivo e razzista che governa l’immigrazione anche grazie al contributo del suo partito, questo l’aiuterebbe a incalzare i 5 Stelle. Che hanno bisogno di fare chiarezza non solo su dove vogliono andare ma anche su chi vogliono rappresentare, altrimenti ogni turno elettorale grande o piccolo sarà per loro come un giro sull’ottovolante.
Ma non è semplice e non è il caso di essere troppo ottimisti nemmeno dopo la vittoria in Sardegna. Il successo di Todde più che dirci come andrà a finire tra i riottosi alleati ci dice come dovrebbe andare se la coalizione che in mancanza di alternative chiamiamo centrosinistra volesse vincere le elezioni politiche, prima o poi. Almeno fino a quando Pd e 5 Stelle non si ricorderanno della pessima legge elettorale che ancora abbiamo (cosa per la quale portano delle responsabilità) e non si decideranno ad alzare un dito per cambiarla