Per Gaetano Azzariti occorre dare vita a una coalizione sociale e culturale per attuare la rivoluzione pacifica scritta nella Costituzione
Premierato e autonomia differenziata sono lo scambio politico tra partiti della maggioranza a cui, per rimanere ai patti, si dovrebbe aggiungere la separazione delle carriere dei magistrati. Per il costituzionalista Gaetano Azzariti, se dovesse passare questo disegno sarà la fine dello spirito costituzionale – unitario e non di parte – che nel 1948 portò all’approvazione della Carta. La logica sottesa è quella della verticalizzazione e della democrazia del capo al posto della democrazia della partecipazione e della rappresentanza. Una vera regressione da contrastare dando vita a una coalizione sociale e culturale per attuare i princìpi costituzionali.
In Parlamento sono state apportate alcune piccole modifiche al testo originario della riforma sul premierato. Si tratta di un miglioramento?
In realtà non mi sembra si sia granché cercato di migliorare il testo. Si è soltanto provato a raggiungere un accordo politico tra Meloni e Salvini. Un’attenzione agli equilibri tra le attuali forze politiche di maggioranza del tutto estranea alla dimensione costituzionale che dovrebbe porsi a fondamento di una proposta di riforma. È questo, a mio parere, il difetto maggiore di tutto il dibattito sulle riforme costituzionali e sul premierato in particolare. Basta pensare alla questione del secondo premier posta solo per dare ascolto ad una richiesta di riequilibrio della Lega. Insomma, c’è da chiedersi se le riforme costituzionali si fanno per seguire le ubbie di una parte politica o per risolvere i problemi di fondo della democrazia italiana.
Leggendo il testo del governo si ha la sensazione che si voglia, attraverso quella riforma costituzionale ma anche attraverso una serie di leggi ordinarie, superare la Costituzione uscita dalla resistenza.
È esattamente questo il punto. È evidente che c'è una retorica che prova a tranquillizzarci, quella in base alla quale, in fondo, questa riforma tocca soltanto quattro articoli della Carta. Non si modificano – si dice – i poteri del nostro “amato” capo dello Stato né si riducono quelli del nostro “malandato” Parlamento. La verità è completamente diversa: non solo si squilibrano tutti i poteri, ma si nasconde la vera posta in gioco, che è il tentativo di passare dalla democrazia pluralista a una democrazia del capo. È questo il discrimine che rende sostanzialmente inaccettabile il disegno di legge sul premierato, nonostante i tentativi di ridurne la portata. È, lo ripeto, l’elezione di un capo che porta a sbilanciare radicalmente il già precario equilibrio del nostro sistema democratico.
Debolezza del sistema democratico?
Si, abbiamo da tempo un problema costituzionale a tutti noto ma che nessuno vuole realmente affrontare e che questa riforma vuole definitivamente affossare. Si tratta della debolezza del Parlamento. Una fragilità che spesso ha spinto il presidente della Repubblica a intervenire in supplenza, in quanto garante della Costituzione: un modo per porre rimedio proprio a questa debolezza. Una revisione consapevole della Costituzione, allora, dovrebbe anzitutto rafforzare il Parlamento e in tal modo, indirettamente, ristabilire i giusti rapporti con gli altri poteri, tanto il capo dello Stato quanto lo stesso Governo.
I fautori del premierato e non solo obbietterebbero “e la stabilità”?
È una questione apparente. Se si vuol dire che i governi durano poco e che 68 governi in 75 anni sono troppi è vero, ma riguarda anzitutto i partiti e la debolezza delle coalizioni. Tutte le crisi, di natura extraparlamentare, sono state, infatti, determinate dalla rottura tra i partiti che di volta in volta erano espressione delle diverse maggioranze. È sui partiti che bisognerebbe dunque intervenire. Non ha fondamento, invece, la richiesta di dare ulteriori poteri al governo. Il governo ha in realtà oggi troppi poteri, nel corso del tempo si è appropriato di spazi e competenze non suoi. Abusando dei poteri conferiti ad esso in via straordinaria domina il dibattito parlamentare. Se il Parlamento prova ad affermare un suo ruolo autonomo, quello che la Costituzione gli assegna, ecco che intervengono strumenti perversi per tacitarlo e riaffermare il potere supremo del governo: dai maxi emendamenti alle reiterate questioni di fiducia. Strumenti che tacitano la Camera e il Senato. Insomma, ripeto, i poteri del governo dovrebbero essere non aumentati ma ridotti, garantendo una maggiore autonomia del Parlamento.
Uno degli elementi di debolezza del Parlamento, a tuo giudizio, è la riduzione del numero dei parlamentari? Oramai il lavoro delle commissioni, ad esempio, è quasi paralizzato: deputati e senatori vanno solo quando si vota e quindi tutta l'attività di conoscenza e di stesura collettiva delle norme non c'è più.
Si, è così. Oggi il Parlamento ha rilevanti problemi di funzionamento, anche a causa del ridotto numero dei suoi membri, soprattutto al Senato. Alla riduzione si sarebbe dovuto dare seguito con una coerente e radicale revisione dei regolamenti parlamentari. Ora, invece, sostanzialmente invariata l’organizzazione dei lavori parlamentari, soprattutto i gruppi minori non hanno le forze e i numeri sufficienti per seguire i lavori di tutte le commissioni. È questo un grave vulnus alla rappresentanza plurale. Si tratta di un ulteriore tassello di quella strategia di riduzione della complessità democratica. Ma, preciso, non è tanto o soltanto un problema di riduzione dei parlamentari. È un problema che coinvolge, più in generale, la crisi dell’organo legislativo. Quella riduzione del suo ruolo costituzionale che ha origini non recenti e che un grande costituzionalista come Leopoldo Elia definiva “di fuga dal Parlamento”. Sarebbe ora di porre fine a questa fuga e, anziché rafforzare il potere della presidenza del Consiglio con l’introduzione dell’elezione del capo, far sì che il Parlamento riacquisti quelli che gli sono attribuiti dalla Costituzione, e oggi perduti.
Cosa si dovrebbe fare, allora?
Bisogna operare su altri piani rispetto a quelli in cui si sta indirizzando il dibattito politico. Innanzitutto, pensare ad una incisiva riforma dei partiti – legislativa, ma soprattutto politica e culturale – che sia in grado di ricondurre le forze politiche organizzate a svolgere quella funzione che l'articolo 49 della nostra Costituzione gli attribuisce, cioè di permettere ai cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale. Per far ciò sarebbe necessario che i partiti riescano a riacquistare una loro effettiva capacità di rappresentanza sociale. Altro che “il giorno delle elezioni bisogna sapere chi ci governa”. Il giorno delle elezioni bisogna sapere chi ci rappresenta, non chi ci governa. Per questo bisogna intervenire sui partiti, ma anche sui sistemi elettorali che devono assicurare una rappresentanza effettiva e non artefatta dal mito della governabilità senza popolo.
È sufficiente?
Penso che sarebbe opportuno anche intervenire sull’organo della rappresentanza, affrontando il fatto che abbiamo formalmente un bicameralismo paritario, ma sostanzialmente un monocameralismo alternato. Molto si può fare cambiando i regolamenti parlamentari, ma se si vuole toccare la Costituzione la sfida che si potrebbe lanciare a chi cerca di portarci verso i lidi di una democrazia identitaria che riduce a nulla il Parlamento, potrebbe essere quella di dare vita a un sistema monocamerale eletto con la proporzionale. Per rilanciare il parlamentarismo e contrastare l’ideologia del capo.
Spostiamo l'attenzione dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica. Formalmente è vero che gli articoli della Costituzione che definiscono il suo ruolo non vengono toccati, ma è altrettanto vero che il ruolo e la funzione del Presidente della Repubblica non viene toccato?
Mi domando se una tale affermazione sia espressione più di disinvoltura o più di ignoranza. Il ruolo costituzionale del capo dello Stato è essenzialmente quello di intermediazione, egli interviene soprattutto nei momenti di crisi. Così, attualmente, quando gli esiti elettorali sono chiari il suo intervento è semplicemente quello di registrare il risultato. La nomina di Meloni è il frutto dell’esito elettorale. Ma il potere del Presidente si espande e diventa decisivo quanto l’esito non è certo (si pensi alla passata legislatura) o si apre la crisi. È in questi casi che diventa fondamentale il ruolo del garante della Costituzione che può – anzi deve – individuare un'altra figura in grado di ottenere la fiducia del Parlamento. Se si elegge direttamente il premier, al capo dello Stato si sottrae questo potere di intermediazione, non può che nominare l’eletto e dopo di lui quel che viene stabilito, peraltro in modo assai bizantino, dalla stessa Costituzione nell’ipotesi del secondo presidente. Questo dimostra come il potere di nomina del capo dello Stato sia stato non ridotto ma direttamente nullificato. E lo stesso vale per lo scioglimento del Parlamento.
Esiste coerenza tra la democrazia del capo e l’autonomia differenziata?
La coerenza è, ancora una volta, puramente politica, anzi partitica, priva di una dimensione propriamente costituzionale. Sono i partiti politici che si appropriano ciascuno per la loro parte di una fetta di Costituzione. Il programma di governo prevede infatti il premierato per Fratelli di Italia, l’autonomia differenziata per la Lega, senza scordare la separazione delle carriere dei magistrati per Forza Italia. Una Costituzione fatta a fette tra le forze di maggioranza, altro che la Costituzione di tutti. A proposito di “coerenza”, si può però indicare un secondo elemento che in questo caso unisce tutte le diverse forze di destra che compongono questo governo. È l’idea della verticalizzazione dei poteri. Tanto con l’autonomia differenziata quanto con il presidenzialismo (ora nella forma del premierato) si afferma la democrazia del capo. In ambito regionale a favore del presidenti di regione, nel secondo a favore del presidente del consiglio.
Cosa mettere in campo per contrastare tutto questo?
Occorre dare vita a una forte coalizione politica, ma forse soprattutto sociale e culturale, che affermi un'altra idea di democrazia. Pietro Calamandrei sosteneva che la nostra Costituzione non è mai stata realizzata. E allora, penso, bisogna mettere in campo una rivoluzione sociale, pacifica e democratica, che sia in grado di attuare i princìpi della Carta, a cominciare dalla centralità del Parlamento e dall'effettività della rappresentanza, guardando bene dentro gli slogan e le formule che ci vengono proposti. Se guardiamo dentro l'autonomia differenziata, scopriamo che ci sono i diritti, i nostri diritti, dall’istruzione, alla salute al lavoro. Ciò che dovremmo mettere in campo è una forte reattività sociale per garantire i diritti fondamentali e la democrazia costituzionale.