RIFORME. Nonostante il successo iniziale, sull’onda delle iniziative referendarie, la scelta maggioritaria non si è consolidata e, nel corso degli anni, una serie di riforme ci hanno consegnato un sistema misto che presenta squilibri di vario tipo
Confesso di essere stato un convinto sostenitore del «modello Westminster». All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quando la crisi del sistema dei partiti che si era formato nel dopoguerra stava per diventare irreversibile, siamo stati in molti a guardare alla più antica democrazia parlamentare dell’Occidente come un esempio da imitare.
Un governo forte, sostenuto da una maggioranza stabile, una competizione elettorale tra due partiti (o tra due alleanze) che si presentano agli elettori con piattaforme chiare e alternative, la possibilità di un’alternanza tra maggioranze di governo come meccanismo fisiologico di ricambio e di rinnovamento dell’offerta politica.
A dare un contributo decisivo alla mia convinzione fu la lettura di un saggio di Augusto Barbera pubblicato su Micromega (4/92). L’attuale presidente della Corte costituzionale era in quegli anni uno dei protagonisti del dibattito sulla riforma della Costituzione, e in quell’intervento, che si legge ancora oggi con profitto, delineava in modo chiarissimo le ragioni di fondo della scelta del modello Westminster, partendo proprio dalla crisi del sistema dei partiti. Barbera assumeva come un dato la tesi della «fine delle ideologie» novecentesche e la convergenza, da parte di tutte le forze politiche, su un «minimo comune denominatore» che rendeva obsoleta una competizione politica basata su fattori identitari.
Nella sua ricostruzione, la politica italiana si era finalmente laicizzata (uso un’espressione non sua, ma credo che essa catturi in modo efficace l’idea di fondo espressa in quel saggio), e questa novità imponeva un cambio di paradigma: l’abbandono del proporzionalismo per passare al maggioritario. L’obiettivo da realizzare era, secondo Barbera, quello di «un sistema politico che funzioni (per riprendere un’immagine di Duverger) come un trasformatore di energia, che raccoglie il consenso e lo trasforma in vincolo programmatico reale, e non come una macchina fotografica». Una prospettiva che, rafforzata dal richiamo all’esempio britannico, mi appariva allora straordinariamente efficace.
Come sappiamo, le cose non sono andate come auspicava Barbera. Nonostante il successo iniziale, sull’onda delle iniziative referendarie, la scelta maggioritaria non si è consolidata e, nel corso degli anni, una serie di riforme ci hanno consegnato un sistema misto che presenta squilibri di vario tipo, non solo sul piano del sistema elettorale, ma anche su quello della rappresentanza (la riduzione del numero dei parlamentari, un’ipotesi che nel 1992 Barbera giustamente criticava) e delle autonomie (la riforma del titolo quinto).
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Nel frattempo, buona parte delle certezze che facevano da sfondo al ragionamento di chi si ispirava al «modello Westminster» si sono sgretolate, tanto che oggi appare azzardato evocarlo ancora, come fa qualcuno, come ispirazione per nuovi interventi di riforma della Costituzione e del sistema elettorale.
La crisi non è locale, ma globale, e riguarda sia l’offerta politica, che è mutata in modo significativo in tutte le democrazie occidentali (con la crisi delle socialdemocrazie, anche nella loro versione aggiornata dalla Terza Via, la mutazione profonda dei partiti conservatori, che si sono spostati molto più a destra di quanto si potesse immaginare negli anni Novanta, e l’ascesa e la capacità di attrazione di nuove forze della destra radicale, che in molti casi dettano l’agenda anche a quelle che tradizionalmente avremmo descritto come riformiste o moderate), sia le politiche, che oggi riportano in primo piano la questione della giustizia sociale, che appariva superata nel clima di ottimismo del post ’89, e indicano la salienza senza precedenti di quella ambientale.
Persino nel paese dove è nato, il «modello Westminster» è stato messo in discussione, con esiti che appaiono ancora incerti, ma che portano a escludere un ritorno al passato. Uno dei più autorevoli costituzionalisti britannici, Vernon Bogdanor, ha osservato che, a partire dal 1997, ci sono stati almeno quindici cambiamenti costituzionali di primaria importanza nel Regno Unito, e che l’impatto che essi sono destinati ad avere rende del tutto ragionevole parlare di una nuova costituzione, che sta prendendo forma sotto i nostri occhi, ma il cui esito finale è difficile da prevedere. Per fare solo un esempio, particolarmente rilevante per il nostro tema, a partire dal 2009 sono impiegati nel Regno Unito almeno quattro sistemi elettorali, oltre a quello tradizionale del first-pass-the-post, e questo mette in discussione persino l’assunto che il sistema maggioritario ancora in uso per l’elezione del parlamento sia il complemento naturale della costituzione.
Pensare per modelli è un metodo essenziale per le scienze sociali, ma l’esperienza di questi anni dovrebbe invitarci alla cautela nell’uso dei modelli. Soprattutto quando essi vengono isolati dal contesto storico e sociale (come purtroppo tendono a fare i giuristi)