PD-M5S. C’è una logica politica in quella che si prospetta come un’estenuante altalena nei rapporti tra Pd e M5S? E fino a quando potrà andare avanti?
C’è una logica politica in quella che si prospetta come un’estenuante altalena nei rapporti tra Pd e M5S? E fino a quando potrà andare avanti? «Costretti a cooperare, destinati a competere», ha scritto su queste colonne Mario Ricciardi.
Il dilemma nasce da alcune difficoltà oggettive, che hanno radici lontane. Chiediamoci perché Conte rifugga da ogni impegno vincolante ogni qualvolta gli viene posto il tema di una qualche alleanza organica con il Pd. Credo che la risposta vada cercata nella valutazione delle caratteristiche degli attuali, potenziali elettori del M5S. Elettori che, in gran parte, oramai, sono ex-elettori di sinistra, che hanno maturato una radicale rottura nei confronti del Pd nel corso degli ultimi dieci anni. E non è una rottura che si possa rimarginare facilmente. La diffidenza è molto radicata.
Si aggiunga che il M5S è davvero un partito post-ideologico, con tutta la libertà di movimento che ne deriva, accentuata dai forti tratti personali della leadership: il suo profilo è segnato da alcune bandiere identitarie, ma non da una qualche strategia di governo fondata su una visione comprensiva. Da qui, una collocazione talvolta ambigua, che marca la propria autonomia su alcuni temi (e non conta molto la coerenza con le scelte passate). Più che competere con il Pd per sottrargli elettori, Conte vuole innanzi tutto tenere i suoi – elettori, peraltro, con un basso indice di fedeltà, come dimostrano le elezioni locali.
Tuttavia sulla questione della concorrenzialità elettorale bisogna intendersi: tutte le analisi concordano sul fatto che le caratteristiche sociali, culturali e territoriali degli elettorati del M5S e del Pd sono profondamente diverse, solo in piccola parte sovrapponibili. Gli stessi sondaggi, visti su un’ottica di lungo periodo, mostrano negli ultimi mesi solo spostamenti marginali. E lo stesso vale per il Pd. I critici di Elly Schlein la accusano di arrendevolezza: ma, come è stato ricordato, essere i più unitari è davvero l’unico modo per parlare a quella quota di elettori del M5S sensibili all’idea di un’alleanza politica a sinistra. E magari per provare a spostarli, se il M5S si mostrasse troppo riluttante. O forse i critici pensano che rispondere aggressivamente possa essere foriero di chissà quali benefici al Pd? Si perpetuerebbe solo l’atteggiamento suicida degli anni scorsi, quando il modo sprezzante di trattare il M5S (gli «scappati di casa», ricordate?) non ha fatto altro che rinsaldare l’ostilità di questi ex-elettori di sinistra alla versione «riformista» e «istituzionale» del Pd (quello a cui alcuni, in modo altrettanto suicida, oggi vorrebbero tornare).
Tuttavia, di fronte a certe uscite (come quella su Trump, o sui migranti) sorge il dubbio che Conte coltivi un’illusione: che il M5S possa tornare a caratterizzarsi come una forza trasversale, che raccolga elettori da tutte le direzioni (come il M5S del 2013, molto meno quello del 2018, che si giovò soprattutto della fuga dal renzismo). Non è più possibile questo ritorno alle origini, è bene che Conte ne prenda atto: il governo giallorosso segna uno spartiacque. Da allora, la percezione del M5S è cambiata, e anche la relativa tenuta alle elezioni del 2022 nasce da questa nuova collocazione. Da una parte, il Pd è costretto a cercare la cooperazione perché i suoi margini di espansione elettorale a breve-medio termine sono piuttosto ridotti (e bene ha fatto Prodi, in un suo recente intervento, a ricordare i sei milioni di voti persi per strada: un esodo di massa, un ridimensionamento strutturale delle basi sociali di questo partito, a cui solo un suo radicale rinnovamento e un lavoro di lunga lena potranno forse porre un qualche rimedio); il M5S, d’altro canto, può certo marcare la sua autonomia su certi temi, ma dovrà alla fine spiegare ai suoi elettori che uso intende fare, ai fini del governo del paese, della forza che riesce eventualmente ad accumulare.
Questo nodo dovrà essere sciolto, prima o poi. Intanto, ciò che ci possiamo aspettare nei prossimi mesi, fino alle elezioni e forse anche oltre, è una sorta di competizione e/o emulazione, speriamo a bassa intensità polemica, che punti almeno a recuperare voti dell’astensione. A breve, non ci può essere alcuna alleanza «organica», ma non ci sarà nemmeno una rottura.
Quello che invece occorre chiedere con forza, a tutte le opposizioni, è che individuino qualche altro terreno di impegno comune, con nettezza e decisione: in particolare, sulle politiche istituzionali. Da più parti, anche su queste colonne, è stato ricordato come non si possa giocare di rimessa rispetto al governo. Ebbene, c’è un tema su cui è possibile davvero costruire una compiuta proposta alternativa, sostenuta da un fronte molto ampio, che comprenda anche Calenda: prospettare riforme che si ispirino integralmente e rigorosamente al modello tedesco, sia per la forma di governo, sia – e questa potrebbe essere la novità – per la legge elettorale proporzionale. Pare che ci possa essere una convergenza su questo punto. Cosa si aspetta a parlarne apertamente, di fronte allo spettacolo insieme inquietante e abborracciato che sta dando la maggioranza?