*Questa intervista all’ultimo segretario del Pci andrà in onda mercoledì 31 gennaio alle ore 21 sul nostro sito, manifesto.it. Il progetto di manifesto tv è stato accolto con grande partecipazione e sostenuto economicamente dai nostri lettori. «C’eravamo tanto odiati» è il titolo del programma dedicato al trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi e alla sua eredità nell’Italia di oggi, governata dalla estrema destra.
ACHILLE OCCHETTO. La destra non dice mai la stupidaggine che sento dire alla sinistra: che non si fa la battaglia «contro». Ci sono momenti storici in cui il «contro» contiene in sé potenzialità positive
Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi - LaPresse
Segretario tutti ricordano quello storico faccia a faccia negli studi di Canale5. A un certo punto Berlusconi rilancia la promessa di un milione di posti di lavoro. È la prima fake-news, la prima bufala del berlusconismo.
Come dissi già dopo quell’incontro, senza peraltro essere creduto, ci trovavamo di fronte a una fase nuova della politica, che non era tanto, come si è detto, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, ma del passaggio dalla repubblica dei partiti alla repubblica del populismo. Quello fu il primo esempio di comunicazione populista. Basti pensare che in quella trasmissione mi industriavo a spiegare che bisognava passare, anche a sinistra, da una vecchia visione statalista a un nuovo rapporto tra pubblico e privato, in cui naturalmente ci fosse una preminenza del pubblico che trasformava anche il privato. Improvvisamente mi sento uno che dice, io do ai cittadini italiani un milione di posti di lavoro in più. Populismo per populismo cosa dovevo dire “e io ne do 1 milione e mezzo!”? Ed è chiaro che qui nasce la difficoltà di comunicazione tra pensiero politico e fake-news populista.
Dopo 30 anni, al posto di Berlusconi abbiamo il governo di Giorgia Meloni. Questa destra rispetto a quella di allora, è più forte. E se sì, perché?
Se sia più forte non lo so perché Berlusconi è durato abbastanza, anche se dentro un quadro che non era ancora destra-destra. Oggi abbiamo una novità forte di cui Berlusconi è stato l’apprendista stregone: l’elemento di menzogna che c’era allora, ovvero la rivoluzione liberale, che ha ingannato molti, non c’è più, c’è invece la destra-destra che ha una maggiore forza come violenza comunicativa ma che probabilmente ha i piedi d’argilla. Non credo possa durare il tempo che è durato il berlusconismo in Italia.
La classe politica di allora era politicamente più qualificata di quella che ci ritroviamo oggi?
Sicuramente, in tutti gli ambiti, anche nell’ambito berlusconiano, bisogna ammetterlo. Proprio perché Berlusconi si era presentato con tante facce: la faccia giustizialista, la faccia nazionalista rappresentata dall’alleanza con il Movimento sociale, e quella invece di destrutturazione dello Stato con la Lega. E soprattutto quella di mallevadore sociale di una pretesa rivoluzione liberale che ha ingannato anche uomini di prima qualità, come Antonio Martino, che ho apprezzato diventando poi suo amico e che, non a caso, è di quelli che hanno abbandonato Berlusconi.
E c’erano persino i radicali…
Trent’anni dopo, al posto di Occhetto e Berlusconi abbiamo Elly Schlein e Giorgia Meloni. Due donne, un cambiamento antropologico, profondo, radicale, segno dei tempi. Ma è tutto oro quel che luce? È un cambiamento destinato a durare?
Che nei punti alti della politica italiana, ci siano oggi due donne, è un fatto storico importante. Naturalmente non è tutto oro, dobbiamo valutarlo sul comportamento. Perché già il fatto che si parli prevalentemente di uno scontro al femminile è qualcosa di antifemminista, somiglia a una ghettizzazione di donne che si considera possano parlare dentro un arco che non è l’arco generale della politica. La misura sarà se queste donne sapranno portare il femminismo al governo del paese, il che vuol dire se non accetteranno di entrare nel sistema di potere maschile costruito sulla loro esclusione. A partire, lo voglio dire subito, da un punto centrale: quello della lotta alla personalizzazione e al leaderismo.
Veniamo al nostro campo. Rispetto a trent’anni fa, ai tempi dell’Ulivo, quando lo schieramento era ampio e articolato, ora che abbiamo il Pd, i 5Stelle, e forze minori, è più debole?
Lo schieramento, in partenza e in teoria, rispetto alle potenzialità di voto del ’94, direi che è più forte. Noi abbiamo un’area disponibile all’alternativa più ampia di quella che poi concretamente si manifesta nella capacità politica di federare questa area, come si dice adesso. Non mi riferisco tanto ad alcune differenze programmatiche, certo non irrilevanti, ma soprattutto al fatto che, nelle elezioni che ci attendono, c’è più il tentativo di fare una lotta dentro le coalizioni piuttosto che l’esigenza di una prospettiva unitaria.
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Ma perché la destra riesce sempre, anche se divisa (come nello scontro per le elezioni regionali), a marciare compatta, mentre la sinistra sembra condannata alle divisioni perenni?
La destra-destra è più realistica e più cinica. È più disposta, quando si deve fare la lotta contro l’avversario, a mettere da parte le divisioni interne e unirsi. La destra non dice mai la stupidaggine, che sento dire a sinistra, che non si fa mai la battaglia “contro”. La destra fa la battaglia “contro”, perché nella battaglia “contro” c’è anche la battaglia “per”, ed è una cosa che la sinistra non capisce: tu certamente devi essere organico sulle prospettive, ma ci sono dei momenti storici in cui il “contro” contiene in sé delle potenzialità positive e quindi, in questo caso, devi essere disposto a mettere da parte quello che divide e privilegiare quello che unisce.
Tra le cose che dividono il Pd dai 5Stelle c’è anche il giudizio su come comportarsi nella guerra in Ucraina, e anche all’interno del Pd c’è maretta.
È una divisione che speriamo legata a un periodo, perché già sull’altro momento drammatico di Israele e Palestina, invece, vediamo che questo non si sta manifestando. Sull’Ucraina si dovrebbe trovare una via d’uscita che non è il mantenere puntigliosamente la posizione di partenza. La sinistra potrebbe unirsi sulla prospettiva, perché su un nuovo ordine internazionale ha molto da dire. Basterebbe che si capisse che sulla vicenda della guerra in questo periodo non influisce nessuno in Europa, mentre l’Europa può influire per offrire un’altra visione del mondo. Basta cambiare tema e invece il tema viene utilizzato per dividersi.
Stiamo correndo verso cruciali elezioni europee, il momento è drammatico, attraversato da guerre, oltre che da elezioni in mezzo mondo, dagli Stati uniti alla Russia. Siamo giunti a un momento di svolta?
Purtroppo non stiamo comprendendo che queste sono elezioni decisive: se l’Europa sposta il suo asse politico a destra, sullo sfondo di elezioni americane che portano al potere Trump, addio democrazia occidentale, la liberal-democrazia sarà sempre di più una pelle di zigrino che si restringe, circondata, ad est e a ovest, da poteri autoritari. L’Europa deve capire che intanto c’è una crisi della democrazia liberale. Indubbiamente bisogna fare un tagliando a questa democrazia, ma andando nella direzione opposta da quella della personalizzazione, dell’elezione diretta del premier. Bisognerebbe muoversi nella direzione della cittadinanza attiva, della partecipazione popolare, di un rapporto democratico più intenso con le persone, con la popolazione. Per questo dico: siete degli irresponsabili se ritenete che questa campagna elettorale serva per misurare i rapporti di forza interni ai vari partiti e tra i partiti, non capite il pericolo storico che sta di fronte a noi. Siete irresponsabili di fronte alla storia.
A proposito di questioni di piccolo cabotaggio: la segretaria Schlein deve candidarsi?
Sono abbastanza d’accordo con i consigli di Prodi, però voglio dire che non sono disposto al mainstream dell’ipocrisia che finge di non vedere che non c’è nobiltà nelle preoccupazioni di quelli che oggi stanno assediando Schlein, ma soltanto strumentalità. Qualcuno ha detto che se si candida perde, se non si candida perde lo stesso perché diranno che non ha avuto coraggio. Io dico invece che c’è una via d’uscita semplice: consultare il proprio partito, magari non così capillarmente perché non si fa in tempo. Per mettere sul piatto della bilancia una questione di carattere molto realistico: il gioco vale la candela? Io non so dirlo, non sono nei giochi. Ma si deve capire fino a che punto violare un principio per cui, come è anche giusto, non ci si può candidare per poi non andare in parlamento. Perché, invece, se questo, lo dico francamente, fosse la carta vincente per sconfiggere Meloni, non avrei dubbi. Bisogna calcolare costi e benefici.