ASSEMBLEA GENERALE. Ma l’Onu serve ancora? Disperata la risposta del segretario generale Guterres: «O si avvia una riforma o è la rottura, le istituzioni rischiano di essere parte del problema»
L’Assemblea generale delle Nazioni unite - Ap
Irrilevanza dell’Onu e irrilevanza anche di Biden che tenta di corteggiare il Sud globale con appelli che cadono in un vuoto fragoroso. Così i giornali americani, dal New York Times al Wall Street Journal sintetizzano cosa accade all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dove le sedie vuote fanno clamore: da Xi Jinping a Putin, da Macron a Sunak, fino al premier indiano Narendra Modi, reduce da un G20 a Nuova Delhi che ha proiettato l’India nel novero delle grandi potenze internazionali. Sono assenti a New York i leader di quattro dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, un segnale non confortante in un clima bellico e di tensioni geopolitiche ai massimi livelli dai tempi della guerra fredda.
Ma l’Onu serve ancora? La risposta dello stesso segretario generale Antonio Guterres è quasi disperata: “o si avvia la riforma delle Nazioni Unite o è la rottura, le istituzioni invece di essere la soluzione rischiano di diventare parte del problema”. Cambiare o scomparire, questo è il messaggio. Da tempo le Nazioni Unite non rispecchiamo più la transizione caotica da un mondo unipolare – dominato da una sola potenza – a uno multipolare con diversi centri di potere. E quando le istituzioni Onu diventano lo specchio della realtà è per squadernare una narrativa assai diversa fa quella del Nord globale. Come sottolinea la rivista francese “Le Grand Continent” negli ultimi trent’anni nelle votazioni all’Assemblea generale soltanto il 14% degli stati ha votato con gli Usa mentre la grande maggioranza dei consensi è stata raccolta da proposte russe e cinesi.
Il fallimento Onu è anche negli obiettivi che si è posta l’organizzazione. L’agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile è solo in minima parte in linea con i traguardi prefissati entro la fine del decennio: l’85% dei piani è in ritardo e persino in regresso. Oltre alle guerre in cui l’Onu sembra ormai privo di iniziative e in ritirata diplomatica e militare – dall’Ucraina al Sahel, dall’Africa orientale e al Corno – ci sono sfide come le conseguenze e economiche e sociali della pandemia, l’inflazione alimentare e le ricadute dell’emergenza climatica che moltiplicano il senso di impotenza. Lo stesso Guterres ci dice che nel mondo ci sono 600 milioni di persone in estrema povertà, 80 milioni i bambini che non vedranno mai una scuola elementare e che a questi tassi di sviluppo serviranno all’umanità circa 300 anni per raggiungere la parità di genere tra uomo e donna. Intanto – mentre le concentrazioni di CO2 continuano a salire a livelli mai raggiunti – la temperatura media globale supererà la soglia “sicura” di 1,5°C prevista dagli Accordi di Parigi sul clima: siamo in realtà già arrivati all’epitaffio dell’Agenda 2030.
Riformare l’Onu o morire, dunque? Il Global South chiede, a ragione, di contare di più. L’obiettivo dell’Assemblea quest’anno è evitare che la spaccatura nord-sud si approfondisca e che le tensioni geopolitiche spingano i paesi in via di sviluppo a cercare di soddisfare i propri interessi lontano dall’Occidente. Il mese scorso i Brics avevano accolto l’adesione di una mezza dozzina di paesi, per dare una sterzata a un ordine mondiale che il blocco considera ormai obsoleto.
Nel mirino è la configurazione attuale del Consiglio di Sicurezza Onu che appare l’istantanea, scolorita e assai datata, di una visione consolidata al termine della guerra fredda all’insegna dell’unipolarismo americano e che oggi non rispecchia l’evoluzione della scena internazionale. C’è un punto su cui la stragrande maggioranza degli stati è concorde: modificare e ampliare la rappresentanza nel Consiglio oggi costituito da Cina, Francia, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti, stati con potere di veto _ l’organo al quale è attribuito il potere d’azione a tutela della pace e della sicurezza internazionale.
Le proposte di riforma che si sono succedute negli anni spaziano da quelle che suggeriscono l’attribuzione del diritto di veto a nuovi membri permanenti (in particolare i cosiddetti G4: Brasile, Germania, Giappone e India), a progetti incentrati su un aumento più o meno consistente di membri non permanenti. In questo secondo gruppo si annoverano 54 stati africani che hanno proposto l’allargamento del Consiglio a 26 membri, il raggruppamento L.69 di cui fanno parte stati africani, latinoamericani, asiatici, caraibici, favorevole alla rotazione e a includere i piccoli stati insulari (20% dei membri Onu). C’è il gruppo degli stati arabi contrario al diritto di veto dei Cinque del Consiglio «visti i danni sperimentati in 80 anni dalla geografia araba».
Si segnala infine il gruppo Uniting for Consensus (posizione anche italiana), che prevede un Consiglio di 26 seggi, con 9 seggi permanenti a lungo termine distribuiti tra i gruppi regionali e i restanti seggi con mandato biennale rinnovabile. In questa proposta rientra la dibattuta questione della partecipazione dell’Unione europea: se è vero che questo darebbe ben altro peso ai 27, l’ipotesi si scontra con il fatto che l’Ue soffre cronicamente della mancanza di un’unica e riconoscibile politica estera comune, con Bruxelles sempre più appiattita sulle posizioni della Nato, ovvero di un’alleanza militare dominata dagli Usa.
Ma al di là delle ipotesi di riforma c’è un’altra materia ineludibile e concreta, quella economica e finanziaria che non aspetta di fronte ai bisogni dei popoli. Biden giocherella adombrando possibili riforme di Banca Mondiale e Fondo monetario ma dall’Asia all’Africa, dal Medio Oriente all’America Latina nessuno dei Brics e dei loro clienti si fa incantare – anzi, cominciano a parlare di de-dollarizzazione. I sauditi hanno appena appaltato a un banca cinese, la Icbc, un prestito sindacato da 11 miliardi di dollari, settore tradizionalmente dominato da banche di investimento Usa. Vedremo adesso se la premier Meloni incanterà gli africani con il suo “piano Mattei”. C’è da dubitarne