C’è una nuova figura penalistica creata in questi anni dalla demagogia populista: quella dei reati di solidarietà. Le persone che salvano migranti in mare, coloro che danno lavoro a un clandestino, oppure una casa in locazione dove poter vivere umanamente, sono i nuovi delinquenti creati dalla legislazione d’emergenza.
È un capovolgimento della logica del vecchio populismo penale: non più gli inasprimenti di pena, inutili e tuttavia giuridicamente legittimi, nei confronti di reati di sussistenza provocati dalla povertà e tuttavia pur sempre illeciti. Il nuovo populismo penalizza comportamenti virtuosi con misure insensate, quando non esse stesse illegittime, come la chiusura dei porti, l’omissione di soccorso e i respingimenti collettivi.
L’imputato simbolo di questa nuova figura penalistica è Mimmo Lucano, contro il quale riprende, domani, il giudizio d’appello contro la condanna in primo grado, il 30 settembre 2021, a 13 anni e due mesi di reclusione. Le colpe imputategli, come è noto, consistono nel fatto che Lucano, come sindaco di Riace, ha ridato vita a questo piccolo comune, ha costruito un frantoio pubblico e una scuola, ha trasformato due orrende discariche in un teatro all’aperto, in un giardino di giochi per bambini e in una serie di piccole fattorie e, soprattutto, ha realizzato – questa la colpa più grave – un modello di integrazione e di accoglienza di centinaia di migranti.
Ma questa incredibile processo è molto più di un processo alla solidarietà. Con esso si è voluto processare, fino all’assurda condanna a oltre 13 anni di reclusione, non soltanto l’accoglienza e l’umana solidarietà, ma più in generale una politica e un’azione amministrativa informate ai valori costituzionali dell’uguaglianza e della dignità delle persone e, proprio per questo, stigmatizzate come false e non credibili.
C’è una frase rivelatrice nella motivazione della condanna, che si aggiunge alla massa di insulti in essa contenuti contro l’imputato: la mancanza di prove dell’indebito arricchimento di Lucano seguito alla sua politica di accoglienza, scrivono i giudici, dipende dalla «sua furbizia, travestita da falsa innocenza» e attestata dalla sua casa, «volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere».
Qui non siamo in presenza soltanto di una petizione di principio, che è il tratto caratteristico di ogni processo inquisitorio: assunto come postulato l’ipotesi accusatoria, è credibile tutto e solo ciò che la conferma, mentre è frutto di inganni preordinati o di simulazioni tutto ciò che la smentisce. Non ci troviamo soltanto di fronte a un tipico caso di quello che Cesare Beccaria stigmatizzò come «processo offensivo» nel quale, egli scrisse, «il giudice diviene nemico del reo» e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto». Qui s’intende screditare come impensabili e non credibili le virtù civili e morali dell’ospitalità, del disinteresse e della generosità.
È lo stesso pregiudizio che è alle spalle delle norme che penalizzano coloro che salvano i migranti in mare. Non è pensabile che essi dedichino tempo e denaro soltanto per generosità, che non abbiano degli sporchi interessi, che non siano in qualche modo collusi con quanti organizzano le fughe di questi disperati dai loro paesi. Perché l’egoismo, l’imbroglio è la regola. Perché c’è sempre un secondo scopo. È insomma necessario diffamare e screditare l’accoglienza di Riace, perché Riace ha mostrato che è possibile un’alternativa alle politiche crudeli e disumane messe in atto dai nostri governi e dalle nostre amministrazioni. Giacché il modello Riace, per il solo fatto di essere stato praticato con successo, è un severo atto d’accusa contro quelle politiche. Chiunque si sia recato a Riace è in grado di testimoniarlo. E i giudici per primi, prima di giudicare, dovrebbero conoscere: dovrebbero andare a Riace e vedere, con i loro occhi, ciò che nel suo comune Lucano è stato capace di fare.
Dalla pronuncia della sentenza di secondo grado in questo incredibile processo dipende ovviamente la libertà di Lucano. Ma certamente non dipende da essa la sua reputazione, essendo Lucano diventato un simbolo indiscusso, a livello internazionale, non solo delle buone politiche di accoglienza ma anche della buona amministrazione. Ne dipendono invece la reputazione e la credibilità della nostra giustizia. Al di là degli aspetti giuridici dell’infondatezza delle imputazioni mosse a Lucano – primo tra tutti la mancanza del dolo, attestata dalle intercettazioni riportate nella stessa sentenza di condanna che ci dicono tutte della convinzione di Lucano di aver sempre agito a fin di bene – si misurerà, da ciò che i giudici decideranno, la loro volontà o meno di unirsi a quest’opera nazionale di diseducazione civile e morale, consistente nella diffusione dell’idea che il bene e la virtù non sono credibili né possibili, ma sono solo delle ipocrite simulazioni, e che la disumanità delle istituzioni è giusta e inevitabile e possiamo tutti continuare a tollerarla, o meglio a sostenerla e a praticarla, con la dovuta indifferenza