COMMENTI. Da destra, il richiamo alla giustizia sociale diventa così il simulacro di sé stessa: un feticcio simbolico da dare in pasto alla rabbia e al risentimento. Da sinistra, occorre prenderne atto e ritrovare in fretta la bussola perduta
L’inattesa scelta del Governo Meloni di tassare gli extra-profitti delle banche può essere giudicata da tre prospettive. La prima è di carattere tecnico-economico: cosa sono gli extra-profitti? Si applicano davvero al caso in specie?
Quali conseguenze economiche comporta l’intervento del governo? La seconda è di natura politica e concerne il segnale più o meno “populista” che il governo ha inteso mandare all’elettorato, agli interessi economici in gioco, al “piccolo” e “grande” capitale. La terza questione investe non l’azione del governo in sé, vuoi dal punto di vista tecnico-economico, vuoi da quello politico, ma la reazione che tale scelta ha suscitato. Questo ultimo punto di vista ci permette di cogliere un aspetto assente dai primi due.
Giorgia Meloni ha giustificato la decisione affermando che non si poteva che chiedere un contributo a chi ha tratto «profitti ingiusti» dalla politica monetaria della Bce. Apriti cielo. Chi definisce la maggiore o minore giustizia di un profitto? La politica non può e non deve mai interferire con il mercato! In una società libera, il diritto e le regole comuni devono avere solo una funzione nomocratica e mai teleocratica.
Una teleocrazia è una società basata su scopi di ordine superiore, stabiliti dalla collettività organizzata e, in ultima analisi, dalla politica. Una nomocrazia, al contrario, è una società dove non c’è nessun fine superiore da rispettare. Gli individui sono liberi in quanto perseguono i propri obiettivi senza danneggiare altri nel farlo. È, questa, l’idea di libertà dalla coercizione che disdegna ogni forma di scopi comuni e criteri di giustizia sociale. Ne consegue che nelle società nomocratiche – fondamento ultimo e più importante dei sistemi neo-liberali – la politica non deve occuparsi di fini collettivi ritenuti “giusti”. La giustizia è ridotta alla sommatoria delle scelte individuali e del “libero gioco” della domanda e dell’offerta. Le regole formali si adeguano. Tutto il resto un’indebita interferenza.
Qui il punto della questione sollevata dalla decisione del governo, davvero rilevante in quanto rivelatore di un tratto profondo delle società a matrice neo-liberale: la rinuncia della politica e delle collettività organizzate alla definizione di scopi comuni basati su criteri di giustizia sociale. Poco o nulla, in questo caso, importa del caso concreto e della sua maggiore o minore coerenza tecnico-economica. Così come del giudizio politico sul segnale che il governo avrebbe mandato all’elettorato. La reazione sarebbe stata la stessa in ogni caso: qualunque tentativo di stabilire e definire un criterio di giustizia sull’attività economica è sospetto, sbagliato, deleterio. Uccide l’unica vera libertà: la libertà economica, su cui si fondano tutte le altre, da tutelare attraverso meccanismi legati alla santissima trinità “prezzi-mercato-concorrenza”.
Il tema è anche cruciale in quanto il successo politico delle destre si fonda proprio sulla capacità di occupare lo spazio di “giustizia sociale” lasciato del tutto sguarnito dalla sinistra. La svolta neoliberale ha generato una sorta di “cattura cognitiva” dei partiti di sinistra, che hanno rinunciato all’idea di giustizia sociale come guida della loro azione. Una classe politica impermeabile a ogni tentativo di equità fiscale, potenziamento dell’azione pubblica, lotta alle diseguaglianze. Giorgia Meloni ha vinto perché ha rimesso al centro il binomio politica-giustizia sociale: ha offerto a un elettorato impaurito e arrabbiato un’idea di giustizia collettiva. Certo lo ha fatto a modo suo: da destra. Quindi a favore di un “noi” nativista, preda di una politica della nostalgia, della paura e del risentimento. In modo escludente e contro l’universalismo dei diritti, come del resto conferma la progressiva e rapida retromarcia sul provvedimento oggetto delle polemiche di questi giorni, come si evince dal testo del Decreto e che probabilmente si completerà nel passaggio in Parlamento.
Con pochissime eccezioni, stigmatizzate e ostracizzate, le classi dirigenti post-’89 hanno aderito all’idea che il mercato è un fenomeno “naturale” che produce il migliore dei mondi possibili. Il futuro è diventato così la ripetizione del presente, senza discontinuità e senza scopi collettivi da perseguire insieme.
L’enorme responsabilità politica delle classi dirigenti neoliberali è stata non prendere atto che se la domanda collettiva per un futuro più giusto non è “curata” da sinistra, si lascia il fianco scoperto alla destra. Le persone perdono la capacità di aspirare insieme a un progetto comune e inclusivo, spezzando le solidarietà tra territori, classi sociali, gruppi e generazioni. Da destra, il richiamo alla giustizia sociale diventa così il simulacro di sé stessa: un feticcio simbolico da dare in pasto alla rabbia e al risentimento. Da sinistra, occorre prenderne atto e ritrovare in fretta la bussola perduta.