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AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Vent’anni di regionalismo hanno drammaticamente peggiorato la situazione, eppure l’intero sistema politico continua, sia pure con accenti differenti, a cercare nelle regioni la soluzione ai problemi causati dalle regioni

Il regionalismo e l’inadeguatezza delle opposizioni 

Le opposizioni – Partito democratico, Movimento 5 stelle, Verdi e Sinistra – sono favorevoli all’autonomia regionale differenziata, sia pure depurata dagli eccessi del furore ideologico leghista?

La domanda pare legittima, alla luce della mozione presentata il 25 luglio scorso in Senato. A partire dal corretto (e, di questi tempi, coraggioso) riconoscimento della diseguaglianza territoriale che segna l’Italia, la mozione si proponeva, infatti, di impegnare il governo a: (1) definire i livelli essenziali delle prestazioni (lep) relativi a tutti i diritti costituzionali prima di trasferire le competenze in materia alle regioni; (2) assicurare il coinvolgimento del Parlamento nella definizione, attuazione e verifica delle intese raggiunte tra lo Stato e le singole regioni sui trasferimenti di competenze; (3) modificare la Costituzione per escludere alcune materie dal regionalismo differenziato (istruzione, ambiente, beni culturali, commercio con l’estero, sicurezza del lavoro, salute, infrastrutture di trasporto, comunicazione, energia, previdenza complementare, coordinamento della finanza pubblico, credito); (4) intervenire a sostegno delle regioni svantaggiate attraverso piani di sviluppo e perequazione infrastrutturale; (5) prevedere, in modo costituzionalmente corretto, l’accesso delle regioni speciali al regionalismo differenziato; (6) istituire un fondo di perequazione per i territori con minor capacità fiscale per abitante da ripartire tra le regioni sulla base dei costi standard associati ai lep; (7) prevedere verifiche obbligatorie e costanti sull’attuazione delle intese al fine di garantire l’effettività dei principi di solidarietà territoriale e coesione sociale; (8) monitorare gli effetti della differenziazione anche sulle regioni che non accedono al regionalismo differenziato, prevedendo la possibilità di sospendere o cessare le intese, con atto del Parlamento, per motivi d’interesse nazionale.

Ora, se è indubbio che l’adozione delle misure proposte avrebbe l’effetto di scongiurare i maggiori pericoli legati al processo di differenziazione in atto – suscettibili di culminare nella «secessione dei ricchi» denunciata, per primo, da Gianfranco Viesti –, altrettanto indubbio è che le opposizioni non chiedono al governo di rinunciare a spingere ulteriormente sul pedale del regionalismo: si limitano a chiedere di farlo con maggiore prudenza. Anche qualora le loro proposte fossero approvate, il risultato non sarebbe la riduzione, e nemmeno il congelamento, del regionalismo attuale, ma il suo incremento. Le regioni acquisirebbero comunque nuove competenze, sia pure in materie meno rilevanti, rafforzando la propria posizione nei confronti dello Stato.

Può essere comprensibile l’intento di muoversi sul terreno della tattica parlamentare, ma colpisce la persistente forza esplicata dall’ideologia regionalista in tutti gli schieramenti politici. A distanza di oltre vent’anni dalla spregiudicata riforma con cui l’Ulivo decise di ampliare le competenze regionali, nessuna delle promesse allora formulate si è concretizzata. «Avvicinare le istituzioni ai cittadini» – come si diceva e si continua a dire con vuota formula retorica – avrà il benefico effetto di renderle più attente ai bisogni degli elettori, più controllabili democraticamente e più efficienti perché in virtuosa competizione reciproca, a beneficio del funzionamento dell’intero sistema istituzionale. Il risultato, al contrario, è stato segnato da istituzioni regionali più permeabili al condizionamento dei poteri territoriali, come dimostrano i casi di Formigoni in Lombardia e Galan in Veneto, meno democratiche perché totalmente in balìa dell’iper-presidente eletto una volta ogni cinque anni, complessivamente meno efficienti perché contrapposte in una competizione tra diseguali a vantaggio delle più forti.

Se nel 2001 eravamo un Paese segnato da forti diseguaglianze territoriali, oggi lo siamo a un livello che non ha pari nell’Unione europea: sono italiane alcune delle regioni più ricche e alcune delle regioni più povere d’Europa. Nessun altro Paese Ue tradisce in modo così marcato il principio di uguaglianza, che pure sarebbe l’architrave della nostra Costituzione.

Vent’anni di regionalismo hanno drammaticamente peggiorato la situazione, eppure l’intero sistema politico continua, sia pure con accenti differenti, a cercare nelle regioni la soluzione ai problemi causati dalle regioni. La fatica con cui le opposizioni stentano a prendere con nettezza le distanze dal regionalismo differenziato, facendosi scudo di formulette inadeguate con i lep e i costi standard (basti dire che là dove, come in sanità, i lep esistono da anni la disuguaglianza territoriale è, ciononostante, la regola), è indicativa di un deficit di visione politica di cui la destra continua beatamente ad approfittare