La Melonomics si conferma come una prosecuzione della politica economica di Draghi, con marcate accentuazioni in chiave di austerity, perfettamente coerenti con le attuali scelte europee, sempre più subordinate agli interessi degli Usa, e alla politica monetaria restrittiva della Bce.
Il richiamo alla prudenza del ministro Giorgetti va interpretato come un appiattimento su quelle direttrici. Mentre sul terreno dei diritti civili e sociali il governo ha da subito messo in atto una serie di misure, condite da dichiarazioni fascisteggianti – da non sottovalutare – che lo avvicinano di più all’area orbanista, con un incrudelimento delle politiche antimigratorie, di cui il recente varo dello stato di emergenza è fulgido esempio di nequizia.
RIMANENDO NEL CAMPO della politica economica le scelte e gli atti del governo si modulavano finora lungo due indirizzi. L’uno, rappresentato dal neoliberismo nella sua forma più cruda, accentuando le politiche privatistiche e antiwelfare, motivate culturalmente – si fa per dire – dal rilancio in ogni campo di celebrazioni del merito.
L’altro, costituito da un insieme di neocorporativismo e di sbriciolamento distributivo, secondo la nota retorica dello sgocciolamento dalla vasca dell’opulenza, una trickle down economy all’italiana. Da quanto emerge il Def sposta il vacillante equilibrio tra questi due aspetti decisamente a favore del primo. Basta scorrere i titoli dei punti che lo compongono per accorgersene.
NON SI PREVEDE alcuna reale politica di bilancio per contrastare la contrazione dell’economia e l’immiserimento della popolazione, accentuati dalla guerra – di cui non si intravede, non a caso, né fine né tregua – dall’incremento dell’inflazione e dall’aumento dei tassi che la Bce persegue indefessamente. Si dirà che gli spazi per una simile manovra sono scarsi.
La soglia “psicologica” dell’1% di crescita promessa dalla Meloni non è raggiunta per quanto riguarda il “tendenziale” a legislazione vigente. Il Def la inchioda allo 0,9%, ma le stime di autorevoli istituzioni sono più basse, a cominciare dal Fmi che prevede per l’Italia un rialzo del Pil dello 0,7%, entro un quadro che riporta la crescita mondiale ai valori del 1990, con possibilità di peggioramento.
È vero quindi che il governo Meloni si muove in un quadro difficile, ma scelte e incapacità lo aggravano pesantemente, come si vede anche nell’implementazione del Pnrr.
MA SOPRATTUTTO lo si vede nell’incremento dell’avanzo primario, cioè del risparmio al netto delle spese per interessi, che, nel 2024 sarà pari a circa 6 miliardi, per crescere a 26 e 45 miliardi nei due anni successivi. La paura dell’incremento del debito pubblico, alla vigilia della discussione del nuovo patto di stabilità europeo, partita già sotto cattive stelle, deprime la spesa sociale e per investimenti pubblici.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Istat, giù il potere d’acquisto delle famiglie, su i profitti delle impreseLa cancellazione della Fornero – cavallo di battaglia della destra “sociale” – è così passata in cavalleria. Mentre si prevede la finalizzazione nella legge di Bilancio di fine anno di un ulteriore aumento delle spese militari di circa 1,8 miliardi, dall’1,38% del Pil all’1,48%, con l’obiettivo voluto dalla Nato di raggiungere il 2%.
NÉ I TRE MILIARDI che sbucano dal mantenimento del deficit tendenziale al 4,5%, in luogo del previsto 4,35% e che verranno utilizzati, con un futuro provvedimento, per ridurre il cuneo fiscale, risolvono alcunché sul fronte delle troppo basse retribuzioni.
Mentre la riforma fiscale annunciata, con la ulteriore riduzione del numero delle aliquote, premierà i ceti più forti, distruggendo ogni barlume di progressività.
Lo riconosce persino la Confindustria – che di suo però non vuole mettere assolutamente nulla – quando osserva che gli effetti sulla busta paga saranno modesti (41 euro al mese per redditi fino a 25mila euro annui).
Se si considerano i tagli per pensioni e sanità già avvenuti, quelli ulteriori che verranno, specie in campo scolastico e sanitario anche in conseguenza dell’autonomia differenziata – se il progetto governativo passerà – si può prevedere che il taglio del cuneo fiscale non compenserà perdite ed esborsi di reddito di un lavoratore medio. Il comunicato del governo insiste sui pericoli di una spirale salari-prezzi.
A FRONTE DI UNA enorme questione salariale, cui la risposta dei tre sindacati confederali appare finora debole e inadeguata. Eppure di fronte ad una inflazione del carrello della spesa che viaggia su due cifre e un aumento nel 2002 dei salari dell’1,1%, ci sarebbe spazio per un incremento di almeno il 5% delle retribuzioni senza innescare alcuna spirale, come riconosce anche il Cer.
Ma questo più che argomento istituzionale è tema di lotta sociale