PRIMARIE. Intervista a Mario Ricciardi, direttore della Rivista del Mulino
Dell’elezione di Elly Schlein e delle sfide che la attendono parliamo con Mario Ricciardi, che insegna filosofia del diritto all’Università Statale di Milano ed è direttore la rivista del Mulino.
Partiamo dallo strumento delle primarie: il voto di domenica ne conferma l’efficacia?
È un meccanismo che nacque come risposta a un problema contingente. Poi ci si innamorò dell’idea, anche se col passare de tempo ci si rese conto che gli effetti negativi erano maggiori di quelli positivi. Ma nessuno ha avuto il coraggio di tornare indietro perché, come si dice, le primarie sono «una festa della democrazia».
Il voto del cosiddetto «popolo dei gazebo» ha sconfessato quello degli iscritti.
È chiaro che creare le condizioni di uno scontro tra iscritti e simpatizzanti non è l’ideale. È un sistema che introduce un potenziale conflitto, mentre il partito dovrebbe fare sintesi, leggere la realtà sociale e gli orientamenti dei possibili elettori senza ricorrere a meccanismi di questo tipo.
Lei sostiene che l’assunto tacito, almeno alle origini delle primarie all’italiana, fosse che la mobilitazione dell’opinione pubblica fosse necessaria per bilanciare gli istinti socialisteggianti dell’apparato proveniente dal Partito comunista.
Quando sono state introdotte le primarie, nel 2005, si avvertiva ancora la cultura di origine in un partito che stava facendo una sua transizione che voleva approdare a un’identità post-comunista e post-socialista. Questa operazione incontrava delle resistenze, erano trasformazioni sofferte di fronte alle quali si opponeva una resistenza spesso passiva. Il meccanismo delle primarie scardinava questa dinamica. Dietro c’era l’idea che stessimo entrando in una fase nuova e che l’opinione pubblica non potesse che essere che illuminata: il mito della società civile.
Ora siamo di fronte a un contrappasso: questa volta dall’esterno è arrivata la spinta verso la candidata considerata più di sinistra.
Probabilmente molti che non avevano votato Pd negli ultimi tempi ma che si considerano di sinistra si sono visti un candidato sostenuto da molti ex renziani che nello stile sembrava riprodurre modalità che ricordavano quelle di Renzi: l’uomo del fare, il pragmatismo contro la sinistra da salotto, la retorica di chi si sporca le mani.
Eppure Bonaccini viene proprio dal Pci, a differenza di Schlein…
Bonaccini forse non è quello che ha cercato di apparire. Ha fatto una campagna sbagliata fidandosi troppo di alcuni opinionisti e finendo per spaventare gli elettori di sinistra. Schlein era perfetta per questi altri: in questa contrapposizione lei rappresentava quella di sinistra, quindi è stata vista come una speranza di cambiamento.
Ma la sua vittoria ha stupito molti.
Ha ragione quando dice: «Non ci hanno visto arrivare». C’è stato talmente disinteresse da buona parte della stampa sul fatto che un partito che aveva perso una parte dei suoi voti e che di fronte all’impoverimento del ceto medio non fosse riuscito a fare politiche contro le disuguaglianze. Nessuno sembrava essersi reso conto di questo problema.
Quale sfida si trova di fronte la nuova segretaria?
Ha tre quarti della stampa contro. In questi giorni sono arrivati alla mancanza di rispetto: la trattano come una ragazzina, le spiegano il mondo, le dicono quello che deve fare. Sarebbe
inconcepibile in altri paesi. Non sarà facile reggere tutto questo.
In effetti dalle nostre parti si continua a parlare di Terza Via, di blairismo come se fossero fenomeni ancora in auge, ma è una bolla solo italiana. Come se lo spiega?
Sono in difficoltà nel trovare una spiegazione. Non sono mai stato comunista, provengo da una cultura liberal-progressista all’interno della quale ci sono stati ripensamenti molto profondi, da prima della crisi finanziaria del 2008. Il primo evento traumatico furono le guerre in Medio Oriente, l’idea di esportare la democrazia abbracciata da Blair produsse effetti disastrosi. Su tutto questo, sul modello economico, sulla giustizia sociale, si è aperta una discussione che dura da due decenni e che dopo la crisi finanziaria è diventata importante, penso ai contributi di Stigliz, Sandel, Piketty. L’Italia sembra totalmente isolata da questo dibattito: lo ignora o cerca di ridicolizzarlo. Per capire il motivo servirebbe un antropologo.
Schlein dovrà portare quelli che l’hanno sostenuta «da fuori» nel partito o costruire un modello aperto ai non iscritti?
Se hai un partito che funziona e che fa il partito il dialogo con la società è più costante e profondo di quello che si affida alle primarie. Negli anni della «fine della storia» abbiamo immaginato che si potesse fare a meno dei partiti e che servissero comitati elettorali. Non dico si debba tornare ai partiti dei primi del Novecento, ma servono partiti che hanno radici nella società. Il Labour ha profonde radici sociali che nascono dal rapporto coi sindacati, circoli, associazioni, think tank che elaborano le idee… Tutto ciò è necessario. È difficile farlo in un paese in cui abbiamo abolito il finanziamento ai partiti. Ma Schlein dovrà provarci