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REVISIONISMI. Il cortocircuito memoriale nazionale consegna agli esponenti postfascisti il collaudato strumento di una retorica celebrativa autoassolutoria e vittimaria interamente centrata sulla rappresentazione rovesciata degli eventi della Seconda Guerra Mondiale

 

Nell’anno primo della destra postfascista alla guida del governo i già contradittori termini di composizione del calendario civile italiano, promulgato per legge con voti bipartisan dagli anni Novanta, hanno finito per coagularsi in una pallina impazzita. Schizzata da un lato all’altro della storia sfigurandone il profilo.

Ad avviarne la corsa è stata l’assessora all’istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan, che con una lettera alle scuole ha celebrato la «giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini» insensatamente istituita dal Parlamento nella scorsa legislatura il 26 gennaio – per la quale ha protestato, inascoltata, anche Liliana Segre. In quella data ricorre l’anniversario della battaglia di Nikolajewka in cui gli alpini, inquadrati nei reparti del regio esercito fascista che aveva invaso l’Urss, riuscirono ad aprirsi un varco dopo che l’Armata Rossa li aveva circondati nel corso della sua controffensiva. Nella storia impazzita tuttavia Donazzan può scrivere che «purtroppo già nel mese di dicembre i russi dilagano accerchiando le divisioni posizionate più ad est». Purtroppo per gli esiti della guerra nazifascista, per fortuna per i destini dell’umanità.

Negli stessi giorni il Presidente del Senato Ignazio Benito La Russa affermava: «non butterò mai il busto del duce [che conserva in casa e di cui ha fatto mostra pubblica ai giornalisti]. È un regalo di mio padre». Il fatto che Mussolini sia stato il dittatore del nostro Paese è concetto che non sfiora i pensieri della seconda carica dello Repubblica nata dalla Resistenza. Sarebbe pensabile per un suo omologo tedesco esporre un busto di Hitler a favore di stampa e restare al suo posto? È anche il contesto a favorire un abuso pubblico della storia ormai senza filtri.

Nella settimana della Giornata della Memoria del 27 gennaio su una testata online della stampa italiana si è riusciti a scrivere (torcendo il passato ad uso di un presente caratterizzato dall’invasione della Russia di Putin) che Auschwitz sarebbe stata liberata da soldati ucraini anziché dall’Armata Rossa sovietica in cui quei militari erano inquadrati – poco prima nell’Ucraina sovietica spadroneggiavano le bande dell’ «eroe» filonazista Bandera.

Apprendiamo quindi che Primo Levi, che da testimone diretto racconta l’arrivo dei sovietici e la liberazione del campo nel suo struggente «La Tregua», avrebbe confuso le divise degli eserciti.

Giunti al Giorno del ricordo del 10 febbraio il cortocircuito memoriale nazionale consegna agli esponenti postfascisti il collaudato strumento di una retorica celebrativa autoassolutoria e vittimaria interamente centrata sulla rappresentazione rovesciata degli eventi della Seconda Guerra Mondiale.

Un immaginario pubblico in cui il «fascismo di frontiera»; l’invasione italiana del 6 aprile 1941; la snazionalizzazione anti-jugoslava e il razzismo di Stato; i crimini di guerra italiani nei Balcani; l’impunità, garantita dagli equilibri della Guerra Fredda, ai criminali del regio esercito e dei battaglioni «Mussolini» ed il collaborazionismo di Salò non solo sono cancellati ma, se citati come elementi di contestualizzazione storica, vengono usati come «prova» di accusa di inesistenti «negazionismi» o «riduzionismi».
In questo quadro e con questo uso pubblico della storia, le foibe e le drammatiche violenze sul confine italo-jugoslavo del 1943 e del 1945 diventano pietre da lanciare non più contro l’avversario politico (la sinistra ha condiviso istituzione e impianto della legge così come viene interpretata oggi) quanto contro i comunisti «titini» e più in generale contro la Resistenza nel suo insieme.

Ricollocando l’estrema destra, che ha ormai ipotecato la narrazione di quei fatti nel discorso pubblico, all’interno di un racconto storico nazionale da cui era stata esclusa nel secondo dopoguerra e di cui ora chiede non solo di far parte ma di esserne riconosciuta alla pari sulla base dell’equipollenza del dolore come elemento empatico e unificante. Così a Genova, nel municipio Levante, Shoah e foibe vengono celebrate in un’unica giornata con il patrocinio del Comune e con un relatore simpatizzante di Casapound «nella convinzione -si legge nel manifesto dell’iniziativa- che i morti non abbiano colore». D’altronde nella legislatura scorsa i senatori di Fratelli d’Italia avevano già presentato una proposta in commissione (bocciata) per l’equiparazione Shoah-foibe.

A Roma invece una conferenza promossa dal Municipio di Ostia viene prima interrotta dalle invettive dei consiglieri della destra per poi finire con un’aggressione fisica all’interno della sala consiliare.

In ultimo una schiera di esponenti del governo postfascista che va dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (già arruolatore di Dante come padre della destra) al presidente commissione cultura alla Camera Federico Mollicone (per il quale «le coppie gay in Italia sono illegali») fino al vicepresidente del Senato, ex missino oggi in Forza Italia, Maurizio Gasparri (che nel 2005 affermò che i morti nelle foibe erano stati un milione) ha chiesto con coro unanime che delle foibe se ne occupi il Festival di Sanremo. Quando la storia si trasforma in farsa