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Alfredo Cospito trasferito a Milano e ricoverato nel carcere di Opera, resta però al 41 bis. Il consiglio dei ministri affronta il caso ma se ne lava le mani. «Si deciderà nelle sedi appropriate», cioè le Corti. Per il governo di destra-destra torna il «pericolo anarchico per lo Stato»

 Alfredo Cospito in una foto del 2013 - foto Ansa

Il copione è noto e sperimentato: l’aggravarsi delle condizioni di salute di Alfredo Cospito sollecita un intervento per salvarne la vita (revoca, quantomeno interlocutoria, del regime di 41 bis); intervengono in parallelo manifestazioni di anarchici caratterizzate da scontri con la polizia e attentati di matrice analoga (così, almeno presentati); il Governo e la maggioranza parlamentare fanno quadrato affermando che lo Stato non può cedere al ricatto e cercando così di chiudere con una pietra tombale (nel senso letterale del termine) la vicenda. La sequenza degli argomenti è suggestiva ma del tutto infondata.

Primo. I protagonisti della vicenda sono

un anarchico detenuto e il Governo. Gli altri sono attori di sostegno (o di disturbo) oppure comparse. Cospito è, da oltre cento giorni, in sciopero della fame, ha perso 42 kg, è fortemente debilitato e in difficoltà a reggersi in piedi, deve – secondo i medici – astenersi dal camminare e si muove su una sedia a rotelle. A questo punto non è dato sapere fino a quando il suo fisico reggerà. La sua protesta è contro la sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis e, più in generale, contro tale regime e l’ergastolo ostativo. Il secondo obiettivo è complesso e, in ogni caso, richiede tempi medi o lunghi. Il primo va affrontato subito con un semplice atto del ministro guardasigilli.

Non sono qui in discussione i delitti commessi (e la loro gravità) e, del resto, la richiesta di Cospito non è la libertà ma un trattamento carcerario più umano, conforme a quello ricevuto fino a un anno fa, per ben nove anni (a dimostrazione che il regime cui è attualmente sottoposto ha alternative). Non c’è nessun ricatto, di cui è elemento essenziale una violenza o una minaccia costituenti “coazione morale” nei confronti di altri (nella specie lo Stato); Cospito non minaccia nessuno ma mette in gioco la propria vita con un lungo suicidio. Lo Stato (e, per esso, il Governo) lo ha in custodia ma anche in cura e deve decidere se – ferma la custodia – deve farlo vivere o morire.

Questo è il dilemma: il resto è solo ricerca di un alibi. E il trasferimento nel carcere di Opera, di cui giunge notizia mentre scrivo, è un primo passo ma ancora insufficiente (posto che aiuta a tenere sotto controllo gli effetti dello sciopero della fame ma non ne rimuove le cause).

Secondo. Ci sono manifestazioni di sostegno a Cospito e al suo sciopero. Esse dimostrano che il suo gesto non è isolato. Sarebbe strano che non ci fossero e ce ne saranno ancor più se la vicenda non troverà in tempi rapidi una soluzione. A volte esse hanno visto scontri con la polizia. Accade, talora, in manifestazioni di segno diverso e se ci sono dei reati vanno puniti. Ma questo non c’entra nulla con lo sciopero della fame di Cospito e con la necessità di affrontare, con intelligenza e umanità, i problemi che esso pone. È vero anche che ci sono stati attentati e lettere di minacce contrassegnati con la “A” dell’anarchia. Probabilmente provengono da aree della galassia anarchica (anche se qualche dubbio è lecito in un Paese in cui le provocazioni e i depistaggi si sono susseguiti in grandi e piccole vicende). Essi vanno stigmatizzati e perseguiti. Ma, ancora una volta, cosa c’entrano con le condizioni di salute di Cospito? E ciò a tacere del fatto che le buone ragioni restano tali anche se sostenute (da terzi) con metodi inaccettabili e/o penalmente illeciti.

Terzo. C’è, infine, la questione generale del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Qui le strumentalizzazioni sono massime e taluno tira in ballo finanche Messina Denaro, Riina, la mafia e quant’altro. Del tutto a sproposito. Non solo perché il caso di Alfredo Cospito è tutt’altro. Ma soprattutto perché il problema aperto non sta tanto negli istituti contestati quanto nella loro applicazione ed estensione, che hanno portato al numero esorbitante di 749 sottoposti al 41 bis e di 1280 condannati all’ergastolo ostativo, alla abolizione di fatto della discrezionalità del giudice nella fase esecutiva, a misure afflittive veicolo dell’introduzione nel sistema di un “carcere duro” non previsto dalla legge. Forse sarebbe bene cominciare a parlarne con pacatezza anziché lanciare anatemi che finiscono per nuocere anche a un’azione razionale di contrasto della mafia.

Ci sono Paesi in cui morire in carcere per sciopero della fame è una scelta frequente, nell’indifferenza (o addirittura nel compiacimento) del Governo. Basti pensare alla Turchia. Non è il caso dell’Italia, almeno per ora. È auspicabile che non si cambi strada