INTERVISTA. L’ex ministro del Lavoro: «Il Jobs Act ha fallito, non si è più competitivi facilitando i licenziamenti. Ci sono già troppi contratti a termine, non vanno aumentati. Schlein ha capito meglio di altri i nostri errori. Bonaccini? Se gli piace il vecchio manifesto perché ne ha votato uno diverso?». «No a scomuniche per chi vota contro le armi. I nostri elettori temono l’escalation militare»
Andrea Orlando, deputato Pd, ex ministro del Lavoro. Il governo si prepara a liberalizzare i contratti a termine, che già sono di gran lunga più utilizzati di quelli a tempo indeterminato.
Si tratta di una scelta da contrastare in ogni modo. Dopo la pandemia la ripresa dell’occupazione ha già sbilanciato il mercato del lavoro a favore dei contratti a tempo. La reintroduzione dei voucher e questo intervento porteranno ad un aumento della precarietà che già oggi è insostenibile a livello sociale e incompatibile anche dal punto di vista previdenziale: contratti brevi e con bassi salari contribuiscono a rendere insostenibile il sistema delle pensioni. Senza dimenticare che oggi la competizione si gioca sulla qualità del lavoro, l’illusione di favorire le imprese nel mercato globale svalutando il lavoro si è ampiamente rivelata infondata.
Il Pd è stato, con Renzi e anche prima, protagonista di una stagione all’insegna della flessibilità del mercato del lavoro. I conti con il Jobs Act li avete fatti o no?
Se l’obiettivo era produrre più lavoro stabile è chiaro che ha fallito. L’idea che rendere più facili i licenziamenti avrebbe reso più conveniente per le imprese assumere a tempo indeterminato si è rivelata sbagliata. Lo dicono i numeri, senza dimenticare gli interventi della Corte costituzionale che ha segnalato sperequazioni. Dunque per il Pd è tempo di ripensare completamente quella impostazione, senza furori ideologici ma senza rimozioni.
Ora il governo della destra si ispira alle scelte di Renzi.
Per la verità con il Jobs Act vennero introdotte alcune tutele. Ora si va solo nella direzione dello smantellamento, lo si fa però senza tenere conto di quello che è successo. L’idea di essere più competitivi comprimendo il costo del lavoro, senza toccare rendite e corporazioni e senza politiche industriali, si è rivelata inadeguata. Non solo ha creato questo alto livello di precarietà, ma quel modello che punta sulla dequalificazione del lavoro mette in discussione anche la tenuta delle stesse imprese.
Nel programma elettorale il Pd sembrava aver fatto passi avanti su questi temi. Ora invece nel congresso non se ne parla quasi più.
La rottura tra Pd e mondo del lavoro non avviene solo per colpa di Renzi, ma viene da più lontano. Da quando il centrosinistra ha deciso di chiedere molti più sacrifici ai lavoratori che al sistema di capitalismo relazionale italiano. La mancata ricostruzione e analisi di questi passaggi incombe sul nostro congresso. Va però detto che Schlein mostra una attitudine a riconoscere questo limiti, e a individuare delle correzioni. Sarebbe esiziale per il rapporto con il mondo del lavoro se, dopo aver detto delle cose chiare in campagna elettorale, le abbandonassimo.
E Bonaccini?
Anche lui riconosce il problema e propone di far costare di più i contratti a termine. Ma questi nodi non si risolvono solo in termini di monetizzazione.
Il messaggio che arriva dai vari candidati è contraddittorio. Il Jobs Act lo avete archiviato?
Ci sono settori del partito che provano nostalgia per il ciclo neoliberale, che non si rassegnano alla fine di quella stagione, che ormai è evidente per tutti, e non la criticano. Al massimo spunta qualche frase sulla lotta alle diseguaglianze, ma non si dice mai che sono figlie di un modello di sviluppo che non si vuole mettere in discussione.
Un Pd con una doppia anima. Crede che la convivenza sia ancora possibile?
I nostalgici degli anni 90 devono tenere conto che, così facendo, il Pd rischia di lasciare una autostrada al M5S. Di fronte alle tensioni sociali che aumenteranno, il partito di Conte rischia di essere visto come il riferimento più credibile per quel malessere. Lo dico io che sono stato spesso accusato di ecsessiva sintonia con il M5S: non merita questo regalo un partito che risponde al disagio sociale solo in termini di assistenzialismo. I fatti costringeranno chiunque vincerà il nostro congresso a fare i conti con i temi della de-globalizzazione, di cui discutono tutte le forze progressiste del mondo.Temi che anche la destra ha colto, come dimostrano le parole di Tremonti e del ministro Urso che ha convocato i sindacati per discutere di politiche industriali. Parole, per la verità, alle quali non sta seguendo nessun fatto. Lo dimostrano la vicenda Ilva e l’assenza di strumenti nella legge di bilancio.
Dopo l’approvazione del nuovo manifesto oggi il Pd ne ha due: quello del 2008 e del 2023. Sono molto diversi tra loro.
Direi che fa più testo quello appena approvato, anche senza abrogare esplicitamente il precedente. Ma ammetto che questa situazione è una spia delle difficoltà e delle incertezze del Pd. Spero che dopo il congresso si faccia finalmente la costituente.
Bonaccini dice che il manifesto del 2008 è ancora attuale.
In assemblea sono state dette cose diverse da tutti. Mi auguro, nell’interesse della credibilità del Pd, che si tenga fede a quanto detto. Perché altrimenti avrebbe votato anche lui un nuovo manifesto che dice cose diverse?
Forse si ritiene che questo passaggio alla fine non conti nulla. Che deciderà tutto il nuovo segretario legittimato dalle primarie.
Non voglio pensare che sia così, non fosse altro per il riguardo alle personalità del comitato degli 87 e a Letta. Questo partito avrà bisogno anche nei prossimi mesi di una interlocuzione con la società e con la cultura. Sarebbe un precedente molto negativo.
I nuovi arrivati di Articolo 1 sono sotto accusa per le posizioni contrarie all’invio di armi.
Risolvere la questione con scomuniche o richiami all’ordine mi pare un’idea balzana. Tra i nostri elettori ci sono molte preoccupazioni sull’escalation militare e perplessità di cui dobbiamo farci carico. Un pacifismo di sinistra e cattolico che fanno parte del nostro dna.
Nel ventennale della morte di Gianni Agnelli abbiamo assistito ad una sorta di beatificazione.
Non si è sviluppata alcuna capacità critica su una figura che è l’emblema di un rapporto non sempre sano tra stato e mercato. In rapporto che è stato la premessa al progressivo disimpegno del gruppo dall’Italia, nonostante il forte sostegno pubblico, anche recente. segno di una subalternità dell’Italia al gruppo. Cosa che non è accaduta in Francia, dove lo stato ha vincolato le risorse alla difesa della dimensione francese di Stellantis.
Il ministro dell’Istruzione Valditara propone stipendi differenziati per gli insegnanti da nord a sud e finanziamenti privati alla scuola.
Come si dice, tre indizi fanno una prova. Prima l’introduzione della parola «merito», poi l’idea che la scuola debba umiliare. Ora i privati e le gabbie salariali. E’ evidente che il governo intende smantellare la scuola pubblica