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COMMENTI. Oltre alla bocciatura del salario minimo il Governo si appresta a reintrodurre i voucher per il lavoro accessorio, di fatto tornando alla liberalizzazione del 2012 prima della loro abolizione avvenuta nel 2017

Via il reddito di cittadinanza, avanti tutta con i voucher

Lavorare non è sempre sufficiente per non essere poveri, e questo non è vero solo in Italia. Nel nostro Paese, però, il fenomeno della povertà lavorativa è più marcato che negli altri Stati europei: l’indicatore prodotto da Eurostat mostra che nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%. La pandemia da Covid-19 ha esacerbato il fenomeno, esponendo a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione.

Ma chi sono i working poor? Secondo l’indicatore adottato dall’Unione europea, un individuo rientra in questa categoria se dichiara di essere stato occupato per un certo numero di mesi (solitamente sette) nell’anno di riferimento e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita, solitamente il 60% del reddito mediano nazionale.

A livello settoriale l’incidenza del fenomeno è particolarmente alta nella

ristorazione, nei servizi turistici e alberghieri, nelle costruzioni. Si tratta di settori a bassa produttività che in Italia hanno un’alta incidenza, molto più che in altri paesi europei. A confronto con il resto d’Europa i problemi strutturali dell’Italia riguardano, tanto lo schiacciamento in basso delle componenti più qualificate, soprattutto giovani e residenti nelle regioni meridionali, quanto di quelle meno qualificate che alimentano l’area del lavoro povero.

Due condizionamenti di fondo vanno rimarcati in questo quadro. In primo luogo, la presenza rilevante di imprese con un problema di bassa produttività che schiaccia le retribuzioni, in secondo luogo, un ampio terziario a bassa produttività che nelle aree urbane, non solo del Mezzogiorno, rappresenta spesso l’unica possibilità di lavoro per le persone a bassa istruzione, ma a basse retribuzioni e senza reali chance di mobilità ascensionale nel mercato del lavoro. Il salario minimo non è la soluzione a tutti i problemi del mercato del lavoro italiano. E’ tuttavia uno strumento essenziale per contrastare la bassa dinamica delle retribuzioni nei settori più esposti alla povertà lavorativa.

La presenza di una estesa copertura contrattuale non basta a contrastare il fenomeno. In primo luogo, per gli ingiustificabili ritardi dei rinnovi contrattuali. In secondo luogo, per la presenza di minimi retributivi in molti casi molto al di sotto dell’ipotetico salario minimo assurdamente bocciato dal governo di centro-destra.

La proliferazione dei contratti pirata è un fattore di ulteriore aggravamento perché inibisce la possibilità per la contrattazione di garantire salari decenti. Ma in fin dei conti una situazione di questo genere a qualcuno e a qualcosa serve.
Serve a garantire la proliferazione dei salari bassi e bassissimi per settori e imprese che riescono a stare sul mercato solo comprimendo il costo del lavoro. Il governo sembra avere recepito l’indicazione e oltre alla bocciatura del salario minimo si appresta a reintrodurre i voucher per il lavoro accessorio, di fatto tornando alla liberalizzazione del 2012 prima della loro abolizione avvenuta nel 2017. Il problema dei voucher non riguarda solo lo strumento in sé ma il disegno più generale che intreccia la riforma del Reddito di Cittadinanza e la stessa contrattazione collettiva.

L’abolizione del sussidio per i beneficiari attivabili è per molti versi funzionale alla reintroduzione dei voucher che in questo modo si candidano a diventare lo strumento principale attraverso cui entrare o rientrare nel mercato del lavoro, senza tuttavia alcuna forma di integrazione al reddito come invece sarebbe necessario. In molti paesi europei i redditi minimi garantiti funzionano proprio in questo modo. In Italia si va in tutt’altra direzione. Ed è questo uno dei cambiamenti che rischia di ingrossare ulteriormente l’area del lavoro povero.

Il secondo ordine di problemi riguarda la contrattazione collettiva che dall’ampio utilizzo di questi strumenti in svariati settori, in particolare l’agricoltura e il settore alberghiero, rischia di essere ulteriormente indebolita. In breve, un cocktail esplosivo che il governo di centro-destra non solo si ostina a non vedere ma alimenta attraverso l’introduzione di politiche di attivazione ad un lavoro che è diventato talmente povero da non qualificare e attribuire dignità all’individuo. Con effetti disastrosi sulla performance, sulla motivazione e identificazione e soddisfazione del lavoro stesso; insomma, un lavoro povero e quindi senza significato positivo ovvero ‘vuoto’ per colui che è chiamato a svolgerlo