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Verso il partito che non c’è con una carta d’identità nuova, non scritta sempre dagli stessi, per un processo costituente vero capace di fare i conti con il 2007 e con l’89

Una nuova casa senza deleghe in bianco 

Un congresso ordinario servirebbe a ben poco. Non basta posizionare le correnti in vista dei gazebo, della incoronazione del nuovo re o della nuova regina. Non solo non sarebbe sufficiente, ma tradirebbe anche un approccio sbagliato. Se tutto si risolvesse in questo, sarebbe saggio risparmiarsi da subito la fatica dell’attesa e fare altro.

Occorrere invece prendere sul serio l’opportunità del processo costituente e impegnare i prossimi due mesi – mentre si fa opposizione, in Parlamento e nelle piazze – in una riflessione severa e sincera sui fondamentali.

Il Manifesto dei valori del 2007, con cui nacque il Pd, non è soltanto inattuale e non lo è da oggi. Era a nostro avviso inattuale già nel 2007, a pochi mesi dallo scoppio della bolla speculativa dei subprime e dalla crisi dei debiti sovrani. Quella carta poggiava — come l’intera impalcatura ideologica del Pd — su di una lettura inadeguata, fallacemente ottimistica della globalizzazione e del rapporto tra Stato e mercato. Lo pensavamo allora e lo pensiamo oggi, con il massimo del rispetto per chi è di altro avviso e ha tra l’altro ottenuto in questi anni risultati elettorali molto più significativi dei nostri. Ma possiamo dirlo senza essere accusati di presunzione? E possiamo aggiungere che non ci pare abbia molto senso che la nuova carta d’identità sia scritta sostanzialmente solo dagli stessi che elaborarono quella del 2007?

Il punto è affrontare, insieme, una discussione sui limiti di quell’impianto e dunque sulla prospettiva. Altrimenti non si capisce su cosa poggi l’esigenza costituente, l’urgenza del ripensamento strategico.
Quale partito serve di fronte alla guerra, di fronte a un processo europeo incompiuto, di fronte allo scandalo delle diseguaglianze, a una società frammentata, culla delle solitudini e di uno «sviluppo senza progresso»?

Che valore può avere l’eco-socialismo, la riscoperta della dimensione politica integrale dell’umano contro la prepotenza della tecnica e della tecnocrazia?
Che ruolo hanno i corpi intermedi, quale lettura diamo dei rapporti di produzione, quale volto ha oggi il lavoro, a quale sistema di relazioni e di potere allude, quali sentimenti scatena nella percezione individuale e collettiva di milioni di giovani, di precari, di subordinati?

Occorrono luoghi aperti in cui provare a rispondere collettivamente a questi interrogativi. Non recinti burocratici cui affidare mediazioni o compromessi tra posizioni precostituite. È necessario coinvolgere giovani intellettuali, energie vive, realtà associative, centri culturali, amministratori e volontari e dare loro il tempo e lo spazio per elaborare percorsi trasformativi.

«Costituente» vuol dire insomma una cosa precisa, a meno che non si voglia scherzare con le parole. È qualcosa in più persino della «rifondazione». Implica l’impegno a dare vita a ciò che non c’è, a un soggetto politico nuovo: con una nuova carta d’identità, una nuova forma, la possibilità di un nuovo nome.

Noi pensiamo che occorra aprire e fare sul serio. Aprire, dando a tutti coloro i quali parteciperanno al percorso il diritto di esprimersi sui fondamentali, anche attraverso un voto, a cominciare dal nome del partito. Non è vero che i nomi non contano e contano solo i contenuti. I nomi anticipano e qualificano i contenuti. Essere democratici oggi vuol dire ben poco. Occorre dirsi democratici socialisti, democratici e socialisti. Cogliere la sfida di un nuovo partito del socialismo democratico, con una storia collettiva nella quale riconoscersi, da rielaborare criticamente, e un orizzonte condiviso. Fare i conti con il 2007 ma anche, finalmente, con i nodi irrisolti che stanno alle spalle, a partire dal 1989.

È soltanto la nostra opinione. Il punto è capire se questa opinione ha diritto di cittadinanza oppure no, se può essere discussa in un dialogo che attraversi il Paese, le sezioni e i circoli, i comitati costituenti territoriali, oppure se è vissuta come una fastidiosa eresia, come un’indebita occupazione di campo.

Dobbiamo battere la tentazione a chiamarsi fuori e partecipare, sollecitando anche le forze a sinistra del Pd a un lavoro comune. Ma partecipare non vuol dire consegnare deleghe in bianco a gruppi dirigenti che hanno spesso dimostrato di non essere all’altezza. Non vuol dire accodarsi, dire ciò che non disturba il manovratore. Significa dare battaglia. Con le nostre idee, per la prospettiva di un soggetto politico che torni alleato di chi lavora e di chi soffre. E poi darsi appuntamento a fine gennaio per verificare la distanza tra le nostre aspirazioni e la realtà. E decidere se e come andare avanti.