INTERVISTA. L’ex presidente dem: il progetto del 2007 non ha funzionato e ora va rifondato. Presuntuoso pensare che bastino le primarie. Chi ha difeso le ragioni della sinistra dentro il partito in anni difficili ora ha il dovere di valutare quale candidatura sia più capace di portare nel congresso una proposta che tanti attendono
Gianni Cuperlo - LaPresse
Gianni Cuperlo, entro febbraio ci sarà il nuovo leader del Pd. Mai come adesso l’identità e la sopravvivenza del partito sono in gioco. Il progetto nato nel 2007 è ancora valido? O è meglio che la sinistra ricostruisca una sua casa?
Capisco la necessità di un nuovo leader, ma la domanda è quale partito si ha in animo di rifondare. Perché dopo la sconfitta e con una destra presa tra le cambiali elettorali e la disumanità mostrata su poveri e migranti, non è coi gazebo delle primarie che il sole tornerà a splendere. Lasciamo stare il temine identità se appare troppo vago, il nodo però rimane e investe l’attualità del progetto. Nel 2007 il traguardo era chiudere la pagina di una sinistra divisa per tutta la seconda metà del ‘900 tenendo assieme il mondo del lavoro, dell’impresa sana e della cultura, a partire da scuola e università. Non ci siamo riusciti per gli errori compiuti e politiche sbagliate, dal jobs act alla legge elettorale, per alleanze mancate come in quest’ultima campagna e per un eccesso di governismo disposto a sacrificare una seria redistribuzione fiscale a vantaggio di quel ceto medio che in buona misura si è rivolto altrove. Se sommiamo una scena globale con la guerra nel cuore dell’Europa e un largo fronte anti-occidentale che si compatta in chiave di valori si capisce come ridurre il congresso a una conta prima che un limite sarebbe un peccato di presunzione.
Crede che la fase costituente sia utile per rifondare il partito oppure sarà vissuta solo come una sorta di pre-partita?
Avrei voluto che quella fase vivesse del tempo necessario a coinvolgere pezzi di società che non siamo più riusciti a intercettare e rappresentare. Detto ciò, se crediamo in un percorso capace di includere forze, persone, in una comunità che ripensa il suo modo di essere, di organizzare la partecipazione, di selezionare la classe dirigente, allora è bene che il processo non si fermi con l’elezione del nuovo leader, ma prosegua con una semina di idee e rotture col nostro passato perché quello sarà il banco di prova sulla volontà di dar vita a una forza diversa.
Come dovrebbe essere il Pd del futuro?
Noi abbiamo una priorità ed è attrezzare l’opposizione a una destra incattivita che a fronte di promesse impossibili da mantenere cercherà i capri espiatori del suo fallimento. Hanno iniziato coi diversivi scandalosi su povertà e disperati del mare. Poi toccherà alle istituzioni e alla democrazia, eviteranno solo di attaccare l’Europa perché dipendono dai suoi fondi e almeno questo lo sanno. La prima manovra è un inno alle ingiustizie, bastone per gli ultimi e carota agli evasori, non uno straccio di visione sulla politica industriale, la conversione ecologica, gli investimenti pubblici necessari. Con una mano sfasciano l’unità del paese, con l’altra accentuano le disuguaglianze. Il Pd dev’essere la forza cardine di un’alternativa a questa deriva di cui vediamo solo il prologo. La sfida è essere baricentro di un’alleanza segnata da principi sociali e una cultura istituzionale opposti alla loro. Lo dobbiamo fare pensando ai mesi che abbiamo davanti, ma anche all’eredità delle forze a fondamento di questo partito. Parlo di culture che hanno segnato la vicenda repubblicana: non aiuta se le consegniamo all’archivio della storia.
Bonaccini si è candidato con un attacco alle correnti interne e al gruppo dirigente romano. Condivide questo approccio?
Nessuno può dirsi estraneo ai modi sbagliati che il Pd si è dato per organizzare vita e democrazia interne. Il problema delle correnti è che non si è mai scelto di pesarne davvero il consenso con regole chiare e trasparenti. Il risultato è che a consolidarsi non sono state aree e sensibilità capaci di produrre idee elaborando un pensiero critico. Si sono imposte logiche di potere e filiere di fedelissimi al leader di turno. Questo ha finito con l’allontanare risorse e competenze che avrebbero potuto evitare errori pagati poi nelle urne.
Si parla di una probabile candidatura di Elly Schlein, che non è ancora iscritta. E la sinistra interna che farà? Tra i nomi che vengono evocati per una candidatura c’è anche il suo.
Penso che la sinistra abbia il dovere di ragionare con serietà su quale candidatura sia più capace di portare nel congresso un pensiero e una proposta che in tanti si attendono anche per avere difeso con fatica quel punto di vista e quelle coerenze in stagioni complicate.
Immagino si riferisca al 2017, quando lei rimase nel Pd di Renzi e non seguì la scissione di D’Alema e Bersani.
Sono rimasto, non senza fatica, perché credo che un Pd ancorato alla sua matrice di sinistra serva in primo luogo all’Italia.
Come si dovrebbe gestire la concorrenza del M5S?
Non mi appassiona la sfida delle piazze. Credo si debba lavorare al dialogo tra le forze che sentono il dovere di unirsi perché è la condizione se vogliamo strappare oggi dei risultati e domani sconfiggere questa destra.
Voterebbe sì all’invio di nuove armi a Kiev?
Penso che questa guerra debba finire il prima possibile e non si possa avere una pace giusta consentendo a Putin di rivendicare una vittoria, lui è il primo responsabile di una tragedia costata oltre duecentomila morti di una parte e dell’altra. Avere sostenuto l’Ucraina anche dal punto di vista militare è stata la condizione per non vederla capitolare in un pugno di settimane. Noi siamo parte di un sistema di alleanze, non ne siamo succubi, quindi certo che il parlamento dovrà discutere qualunque nuovo invio di armi. Decisivo sarà accompagnare quel confronto al massimo sforzo diplomatico per una trattativa e una tregua nella volontà di non abbandonare gli ucraini al loro destino.