EFFETTI COLLATERALI. Ogni volta che durante questo conflitto sanguinoso è apparso un timido, oppure un forte spiraglio di mediazione, come in questi giorni, capace di aprire una trattativa per porre fine alla guerra cominciando da un cessate il fuoco, ecco che proprio in questi rari ma preziosi momenti è sempre accaduto qualcosa che ha rimesso in discussione ogni tentativo
Il cratere di un missile a Przewodow, in Polonia. Al confine con l'Ucraina - Immagine presa da twitter
A questo punto non dovremo forse aspettare i Pentagon ucrainans papers per conoscere quanto è accaduto con il missile (o frammenti di missile) caduto sul villaggio di Przewodow in territorio polacco. Perché un fatto è certo, non si è trattato di un deliberato attacco della Russia a un paese della Nato per una estensione ancora più criminale dell’aggressione russa all’Ucraina. Visto tra l’altro che tra le prime notizie c’era quella che la Nato indagava, come se non controllasse anche per via satellitare le traiettorie di tutti i missili che attraversano la martoriata Ucraina, e visto che la Polonia non ha attivato né l’articolo 4 dell’Alleanza atlantica che allerta alla reazione congiunta, né l’articolo 5 che chiama alla reazione militare di tutta la Nato se un solo paese è aggredito.
Ma soprattutto visto
che ieri per lo stesso presidente polacco Andzej Duda «non ci sono prove che il missile era russo, probabilmente è stato un incidente sfortunato», che la Nato ha affermato che «il missile proveniva dall’Ucraina» e che addirittura Biden ha definito «improbabile» che il missile provenisse dalla Russia, per una dichiarazione apprezzata per la sua «moderazione» dal Cremlino stesso. Solo il presidente ucraino Zelensky nel suo discorso videotrasmesso al G20 di Bali ha accusato l’attacco missilistico finito in Polonia di essere – ma non lo era – «un autentico messaggio della Russia al G20».
Abbiamo dunque la certezza che si è trattato di un «incidente», parola che mettiamo tra virgolette perché, pur significando in guerra appunto una non-volontà militare di colpire, mette tuttavia in evidenza la pericolosità dell’evento epocale delle ore drammatiche di martedì sera. Una pericolosità che dura dall’inizio di questa guerra per la quale un incidente «qualsiasi» – attacco in territorio Nato, o a un convoglio di armi occidentali, o in territorio russo come è accaduto a Belgorod, un errore tecnico per armi sofisticate, ecc. – può far precipitare la crisi bellica in corso da guerra d’aggressione a un paese sovrano a terza guerra mondiale che, per chi non l’avesse capito, vuol dire atomica. E poi, non sono forse questi missili che arrivano a uccidere in Polonia la prova di armi di difesa che diventano di offesa magari colpendo il nemico sbagliato?
Ma c’è una seconda certezza che si fa strada. Ogni volta che durante questo conflitto sanguinoso è apparso un timido, oppure un forte spiraglio di mediazione, come in questi giorni, capace di aprire una trattativa per porre fine alla guerra cominciando da un cessate il fuoco, ecco che proprio in questi rari ma preziosi momenti è sempre accaduto qualcosa che ha rimesso in discussione ogni tentativo, rilanciando solo e soltanto la guerra.
Stavolta però è chiaro che sulla mediazione puntano forze decisive come gli Stati uniti, la Cina anche con le sue «linee rosse», impropriamente la Turchia che pure ha avviato gli accordi positivi sul grano. È dal capo di stato maggiore Usa Mikey Milley che è venuta la dichiarazione che, dopo 200mila morti e feriti di una parte e dell’altra, non c’è alcuna possibilità di soluzione militare del conflitto e nessuna probabilità di vittoria russa o ucraina che sia, ma c’è solo l’opportunità di tenere aperta una «finestra negoziale»; mentre l’inviato di Biden a Mosca e a Kiev, Jake Sullivan, ha chiesto a Zelensky «proposte realistiche» per una trattativa – e probabilmente i dieci punti che il presidente ucraino ha presentato finora non vanno tutti in quella direzione se «rifiutano una Minsk 3» tacendo sulla Crimea e sul futuro della minoranza russa del Donbass.
Intanto si sono riparlati i vertici militari russi e americani e, fatto inaspettato, le due intelligence, allertate sullo sconfinamento della guerra in chiave nucleare e quindi sul dialogo possibile.
Staremo a vedere se l’«incidente» polacco rimetterà tutto in discussione anche stavolta. Al momento sembra pericolosamente rafforzare le ali estreme, i falchi sia russi che ucraini. Certo il comportamento di Putin che scatena attacchi missilistici a pioggia sulle infrastrutture delle città ucraine allo stremo – una guerra, anche questa, contro i civili – non solo non aiuta ma va proprio contro ogni ipotesi di cessate il fuoco allontanando la trattativa.
È come se non volesse riconoscere che alla fine da Kherson si è dovuto ritirare; è stata una «ritirata strategica» riconoscono i militari Usa, non la fuga, che però apre una possibilità di tregua. Tant’è che lo stesso Zelenski, celebrando quella vittoria, ha rilanciato: «È l’inizio della fine della guerra. Ora siamo pronti alla pace per tutta l’Ucraina». Adesso salgono in cattedra a Mosca gli ipernazionalisti, quelli che chiedono la testa di Putin a mezza bocca accusandolo del ritiro da Kherson, perché ora accetti la «provocazione polacca».
E dall’altra la compatta ma timorosa leadership di Kiev, affermando in modo poco veritiero che «i missili sulla Polonia sono un attacco alla sicurezza collettiva», punta a rafforzare quel fronte dell’Est che va dalla Polonia, al primo posto tra i fornitori di armi all’Ucraina, ai Paesi Baltici schierati in prima fila per l’avventura di una guerra con i coinvolgimento della Nato – nonostante anche ieri Stoltenberg abbia ribadito che l’Alleanza non è in guerra e che non ci sarà nessuna no-fly zone più volte richiesta dallo stesso Zelensky.
Un fronte organico all’Italia del governo Meloni, nazionalista-atlantista ma non europeista, che vede nella continuazione di questa guerra un cemento ideologico e uno sprone concreto nello schieramento internazionale-atlantico che la sostiene. Invece questa guerra deve finire e la finestra negoziale per una trattativa di pace deve rimanere aperta, a dispetto dei tanti nuovi «incidenti» che già si intravvedono all’orizzonte.