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INTERVISTA. Lo studioso del pensiero politico: «Un progetto partito nell’euforia della globalizzazione, incapace di rispondere al suo declino. Ora va resettato o sciolto»

Carlo Galli: «Il Pd è in crisi da quando è nato» Carlo Galli

«Il Pd è in difficoltà da quando è nato, pochi mesi prima che la crisi dei mutui subprime sconvolgesse l’ordine liberale del mondo. A quella crisi l’Unione europea ha risposto con l’austerità, che i dem hanno sostenuto, e da quella cura l’economia italiana non si è più ripresa. Ricordo che, durante il governo Monti, il M5S cresceva di un punto al mese, poi è arrivato Renzi, un liberista sfrenato, ma il Pd lo ha incoronato e se lo è tenuto, tranne qualche sventurato che è uscito». Carlo Galli, per decenni ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Bologna (venerdì è uscito per il Mulino il suo ultimo libro «Ideologia»), usa il metodo dello storico per ricostruire la biografia di un partito che «non è mai stato in grado di proporre un’alternativa a quello che la storia serviva, passivo, nato sposando l’idea di una società a-conflittuale, con l’idea che bastasse assecondare il movimento dell’economia per generare condizioni di vita decenti per tutti, al massimo si potevano apportare piccole correzioni. Un partito immerso in una nebbia neoliberista, con una fiducia cieca nella globalizzazione. E quando questa è andata in pezzi, il partito è rimasto muto, non ha saputo stare dentro la ri-politicizzazione della società».

Eppure è uno dei pochi grandi partiti italiani rimasti.

Sa occuparsi di questioni simboliche, in queste ore alla disputa su “la” o “il” presidente del consiglio. Sa anche mettersi sempre dalla parte dei buoni, dando giudizi moralistici su ciò che accade.

Dall’opposizione le cose cambieranno?

Vedo che ora si annuncia una postura pugnace. Finora non c’è stata, come se la politica fosse un valzer e non un ring. Continua a mancare una lettura radicale della società, delle contraddizioni che hanno portato voti ai “populisti” e poi ai “sovranisti” che hanno saputo intercettare il disagio sociale. Non basta accusare la Meloni di essere fascista, bisogna capire le origini dei problemi e saper dare risposte all’altezza della loro radicalità.

Ora ci sarà un congresso costituente.

Leggo che qualcuno tra gli aspiranti leader (Bonaccini, ndr) dice che non si deve fare filosofia ma agire. Ma con quali idee? Parlando a quali ceti sociali? Finora, in una società semi-devastata come quella italiana, la protesta ha trovato le risposte dell’astensione, la rabbia individualista del voto al M5S, fino a che la destra le ha dato un contenitore: la nazione. Certo, Meloni alla Camera ha fatto un discorso identitario. Ma la risposta non è attaccarla per questo, semmai costruire un’identità altrettanto forte a sinistra.

Ritiene che la spinta propulsiva del Pd sia esaurita?

Non mi pare ci sia la capacità di analisi e la voglia di cambiare completamente registro. Mi pare che i dirigenti dem sperino piuttosto in qualche errore di Meloni per poter tornare al governo. Ma lei è più abile di Salvini. Ad oggi il Pd resta il quarto partito tra gli operai. Se volesse cambiare rotta lo spazio ci sarebbe: se si vogliono contrapporre i bisogni dei lavoratori alle esigenze del capitale, se si vuole dar voce a disoccupati, precari e sottopagati, davanti c’è una prateria. Ma serve un partito pesante, che torni fisicamente nei luoghi di lavoro, come faceva il Pci.

Un modello ancora attuabile?

Il conflitto sociale non è finito, basta ricordare la vicenda del rider licenziato dopo la sua morte sul lavoro. Il punto è capire se i lavoratori si possano ancora fidare del partito del Jobs Act e della buona scuola.

È probabile che, chiunque vinca le primarie, la linea sarà un po’ più sociale.

Guardi che non c’è bisogno di un’opera caritatevole, ma di un partito di sinistra. Sul Pd già girano gli avvoltoi, Calenda e i 5 stelle: se dal congresso uscirà la linea di barcamenarsi, senza dare risposte radicali, credo che i due avvoltoi si mangeranno i resti. E sinceramente non credo che il meccanismo delle primarie, tipico di un partito leggero e leaderistico, sia quello più adatto per ripensare il Pd dalle fondamenta.

Vede qualche figura in grado di guidare una vera rifondazione?

C’è qualcuno tra i dirigenti, come Cuperlo, che sente la mancanza di una visione, che ha capito che la sconfitta non è tattica o episodica ma strutturale. Ma non ho ancora sentito nessuno dire, come Bartali, che è «tutto da rifare».

Pensa che sarebbe utile lo scioglimento? O c’è il rischio che si faccia terra bruciata?

L’idea di sparigliare non va esclusa, se un congresso è costituente bisogna accettare di rinascere dalle ceneri, di mettere tutto in discussione, col coraggio dei socialisti di fine Ottocento. Si deve appunto fare filosofia, discutere accanitamente di politica, dare spazio alla rabbia e alla voglia di futuro dei giovani. Se non uno scioglimento, serve almeno il cambio di un nome che non ispira più fiducia.

Sarà il M5S a ereditare la sinistra?

In questa fase è la forza più a sinistra. Non socialdemocratica, direi di sinistra democratica. Non c’è una interpretazione radicale della società, ma capiscono che il sistema economico produce problemi. Nel M5S c’è una forte debolezza organizzativa e culturale, e tuttavia Conte ha dimostrato di avere know-how e resilienza, di saper sopravvivere ai suoi errori.

Meloni al governo che destra rappresenterà?

Il suo è stato un discorso liberista, «lasciamo fare alle imprese», di impronta thatcheriana. Ma la Thatcher metteva in conto l’aumento della disoccupazione, Meloni non può permettersi altra povertà. Deve portare risultati su occupazione e salari, e non vedo come possa fare visto che non vuole il salario minimo e neppure nuovo debito. Credo che si muoverà più sul fronte simbolico, della destra cattolica. Ma non fino a toccare la legge 194.