LA CLASSE OPERAIA TORNA IN PARLAMENTO. Quindici anni di fabbrica, poi tutta la trafila da delegato a segretario nazionale Fiom: non voglio essere un panda, punto a ricostruire un dialogo con la società. La politica li ha lasciati soli: da 30 anni votano a destra. Torniamo internazionalisti perché torni la solidarietà
Tino Magni, lei ha fatto quindici anni – veri – di fabbrica: dal 1961 al 1976 in una piccola azienda lecchese. È stato prima delegato di fabbrica, poi ha fatto tutta la trafila sindacale nella Fiom fino a diventare segretario nazionale. E domani entra ufficialmente in senato fra i quattro eletti dalla Alleanza Verdi-Sinistra italiana riportando un operaio in parlamento dopo due legislature: gli ultimi furono Antonio Boccuzzi (Pd) della Thyssen di Torino e Antonio Barozzino (Sel) licenziato (e poi reintegrato) dalla Fiat a Melfi. Un piccolo segnale di riscossa per il mondo del lavoro?
Per me è una cosa insperata. Sono molto contento di come sono stato percepito durante la campagna elettorale e dai compagni del partito. Ma non mi basta: vorrei riuscire a costruire un rapporto con la società. Non mi vorrei occupare solo di fabbriche in crisi, non vorrei essere un panda, ma impegnarmi per riaffermare la cultura del lavoro. Io ho fatto 15 anni di fabbrica e con il mio salario potevo progettare il futuro, oggi con la precarietà dilagante non è più possibile: ne va della dignità stessa delle persone.
L’assenza di operai in parlamento è coincisa con la totale sparizione dei temi del lavoro dall’agenda politica. Un processo molto lungo però: lei vede un punto di svolta in questa regressione?
Penso la cosiddetta “marcia dei 40mila” a Torino. E la conseguente rottura sindacale. Da quel momento il mondo del lavoro è passato sulla difensiva. Io ho vissuto le grandi conquiste degli anni settanta in fabbrica: i Consigli, l’Flm, lo Statuto dei lavoratori. In quegli anni oltre ai diritti aumentarono i salari, ci fu una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori. Per farla breve: la Costituzione entrò in fabbrica. Dagli anni ottanta in poi invece il lavoro è stato frantumato: noi eravamo tutti assunti con le stesse condizioni e quindi eravamo una controparte unica per il proprietario. Nelle fabbriche di oggi ci sono tanti appalti esterni e lavoratori con condizioni e contratti tutti diversi. Se vogliamo ridare dignità al lavoro la prima cosa da fare è riunificare le condizioni con un solo contratto di lavoro, magari dopo un periodo di prova ma che poi diamo modo ai giovani di avere un contratto a tempo indeterminato per potersi creare un futuro sicuro.
Treu, Sacconi, Fornero e infine il Jobsact di Renzi: le riforme del lavoro approvate dal parlamento quasi senza opposizione hanno progressivamente tolto diritti e futuro ai lavoratori, specie ai giovani.
Il Jobs act è stata veramente la peggiore, una vera frattura anche perché fatta da chi sosteneva di essere di sinistra e invece era neoliberista. Siamo tornati agli anni sessanta quando il padrone poteva licenziarti per un alzata di ciglia. E ha trasformato il lavoro in merce: anche se ha torto, l’imprenditore ti licenzia in cambio di poche mensilità. Tutte queste “riforme” vanno cancellate, come in Spagna.
Da vent’anni si polemizza sugli operai che votano a destra quando il problema è averli lasciati soli. Non pensa che il problema sia nella perdita di coscienza di classe e nell’aver smesso di trasmettere loro il senso di solidarietà?
Quando a Milano divenne sindaco il leghista Formentini nel 1993, come Fiom commissionammo un’indagine a Mannheimer e venne fuori che gli operai votavano già in massa la Lega. Ma lo facevano – anche se è facile dirlo adesso – perché si sentivano sostanzialmente soli: il capitale si era riorganizzato e reso globale, la classe operaia e il sindacato non sono stati ancora in grado di rispondere internazionalizzandosi: ci siamo solo difesi a livello nazionale, un paese contro l’altro. E allora quando hai paura, ascolti uno che ti dice come difenderti, senza accorgerti che stai perdendo i tuoi valori, a partire dalla solidarietà. Ma gli operai non possiamo biasimarli, la colpa è più nostra.
C’è però anche un problema di conoscenza dei problemi: in fatto di pensioni la Quota 41 proposta da Salvini salverà qualche operaio 65enne ma non la stragrande maggioranza che oramai non hanno carriere così lunghe e anni di contributi.
È vero, sulle pensioni presto in molti si accorgeranno che Salvini non li aiuterà: serve una pensione di garanzia e aumentare i coefficienti.
Lei sabato era in piazza con la Cgil: è d’accordo con Landini che si è tenuto lontano dalla campagna elettorale facendo leva sull’autonomia del sindacato dalla politica?
La più grande manifestazione metalmeccanica a cui ho partecipato è del 2 dicembre del 1977 in polemica con il Pci e buona parte della Cgil sulle «convergenze parallele». Io non sono sempre stato d’accordo con Sabattini ma l’autonomia del sindacato dalla politica è giusta. Detto questo, destra e sinistra però non sono la stessa cosa.
La solidarietà fra lavoratori si può ricostruire partendo dalla pace?
Certamente, è una priorità manifestare e costruire la pace. Io sono stato volontario 25 anni nei Balcani e so benissimo che ogni guerra si alimenta con le armi. C’è difficoltà a mettere in campo un movimento ma dobbiamo assolutamente provarci chiedendo a gran voce il disarmo globale.