LE RIFORME DELLA DESTRA. La destra può farcela da sola, avendo superato la maggioranza assoluta dei componenti nelle due camere. E se qualche voltagabbana o utile sciocco si rendesse disponibile potrebbe persino prevenire il referendum ex art. 138.
Era scritto. La mancata riforma del Rosatellum in senso proporzionale – in specie dopo il taglio dei parlamentari – imponeva assemblaggi pre-elettorali. La destra lo ha fatto, gli altri no.
Ed è venuta una sconfitta annunciata quant’altra mai. Ora bisogna far fronte alle conseguenze, a partire dalle pulsioni di riforma costituzionale. La destra può farcela da sola, avendo superato la maggioranza assoluta dei componenti nelle due camere. E se qualche voltagabbana o utile sciocco si rendesse disponibile potrebbe persino prevenire il referendum ex art. 138.
Dopo il Mattarellum (1993) la sinistra aveva capito che il maggioritario richiedeva di mettere in sicurezza la Costituzione. Chi vince prende più seggi di quanti ne avrebbe in base ai consensi, chi perde ne prende meno. Andrea Fabozzi su queste pagine ha ampiamente documentato la distorsione. Così, oggi una destra che è minoranza nel paese diventa maggioranza in parlamento. Secondo una opinione, serve a dare stabilità e governabilità. Ma cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza (farlocca) ha il senso di una inaccettabile prevaricazione, di una iniziativa legale, certo, ma non legittima. E suggerisce che un successivo turno elettorale veda una spinta in senso contrario, producendo instabilità nelle regole fondamentali.
Nel 1995 fu presentata alla Camera una proposta di messa in sicurezza (AC 2115). Recava le firme più autorevoli, inclusi Napolitano, Mattarella, Bassanini, Elia e molti altri. Aumentava i quorum per i regolamenti parlamentari, per l’elezione del capo dello stato, per i giudici della corte costituzionale e i componenti laici del CSM. Per la revisione della Costituzione chiedeva i due terzi dei componenti in entrambe le deliberazioni, con referendum sempre possibile.
Erano in campo anche altre proposte: 2791, 2956, 2970, 2971, 2979, 2981, 3015. Una a firma Bossi (2979) proponeva un’assemblea costituente eletta con metodo proporzionale su base regionale. La proposta del centrosinistra arrivò in aula, e nella seduta del 21 settembre 1995 il relatore di minoranza Nania (An) addebitò alla «cultura del sospetto» l’innalzamento dei quorum, per il timore che una destra vincente potesse introdurre il presidenzialismo.
La messa in sicurezza morì in quel 21 settembre. Prevalse poi anche nella sinistra – che stava abbandonando le proprie storiche coordinate di politica istituzionale – l’idea che la Costituzione fosse da aggiornare. Venne così la Commissione D’Alema, e poi la riforma del Titolo V nel 2001, per la quale il centrosinistra abbandonò anche il principio che la Costituzione non si cambia a colpi di maggioranza. Un errore funesto e un pessimo precedente. Così è stato da allora. Abbiamo oggi un nuovo round, illustrato su Repubblica da Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera. Tra ovvietà e minuterie, i piatti forti della proposta sono indicati nel presidenzialismo e nei rapporti con la Ue.
Sul primo, lo schieramento dei no – incluso Calenda – sembra al momento abbastanza compatto. Se c’è una proposta invecchiata è proprio quella dell’investitura formalmente o sostanzialmente popolare di chi ha poteri di governo. L’esperienza recente ne mostra tutta la fragilità proprio nei paesi da sempre assunti ad esempio, come gli Usa, la Gran Bretagna o la Francia.
Il problema è che nell’accordo di governo c’è lo scambio con l’autonomia differenziata. E nel consiglio federale della Lega, tornata ai fasti del separatismo nordista, è stato forte il richiamo all’autonomia come motivo fondante della partecipazione al governo, da portare addirittura nel primo consiglio dei ministri. Zaia è all’attacco. L’argomento (falso) è che l’autonomia è pronta, mentre il presidenzialismo richiede tempi lunghi. Uno scambio al ribasso si mostra possibile, o probabile.
Quanto al nostro rapporto con l’Ue, è puerile pensare che possiamo difendere la nostra sovranità cancellando qualche parola nella Costituzione, o magari importando una formuletta da quella di altri (nella specie, la Germania. Cfr. Meloni ed altri, AC 291 e AC 298 del 2018). Ancor meno ci rafforzano le sbandate verso Visegrad. Pesano, invece, il nostro bisogno di supporto, in specie per il Pnrr, il debito pubblico, la Bce, lo spread, i mercati finanziari.
Per riforme utili proporremmo altro. Ad esempio, una seria rivisitazione del Titolo V, che in tempi difficili ha mostrato tutti i suoi limiti. Il programma della destra possiamo cestinarlo senza rimpianto. Ma non c’è da illudersi su quel che potrà davvero fare il futuro governo con le emergenze in atto e quelle che ci aspettano. Un bel dibattito su riforme inutili per mostrare una esistenza in vita è una eccellente arma di distrazione di massa. Purché non si passi dalla distrazione alla distruzione.