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ECONOMIA DI GUERRA. Senza abbassare le armi di tutti, quelle militari e quelle economiche, e senza praticare una vera autonomia strategica europea, continueremo ad avere la guerra nel cuore del Continente. E a ottobre ci troveremo a fronteggiare, in Italia più che altrove, problemi drammatici in termini di inflazione

Abbassare le armi, quelle militari e quelle economiche

 

Di fronte a questioni fondamentali per il nostro futuro occorrono lucidità e onestà intellettuale. Gazprom ha annunciato la sospensione a «tempo indefinito» delle forniture di gas all’Unione europea tramite il gasdotto Nord Stream 1.

Al contempo l’Ue, dopo mesi di imbarazzato silenzio e di fronte a nuive divisioni interne, ha posto le basi affinché la prossima riunione dei ministri dell’Energia discuta della possibilità di introdurre un tetto al prezzo di acquisto del gas. Peccato che lo farà a rubinetti chiusi. Il fattore tempo, in politica, è tutto. Ammesso che le importazioni via Ucraina compensino almeno una parte di quelle bloccate a nord, molto dipenderà dal tipo di price cap che verrà varato.

Non è un dettaglio che si tratti di un intervento sul complesso dei mercati europei (interrompendo gli acquisti e attingendo agli stoccaggi interni nella misura in cui il tetto è superato) oppure di un tetto solo al prezzo del gas russo (iniziale proposta Draghi) oppure ancora – come sostiene la Germania – di un intervento degli Stati a copertura della differenza tra prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio.

Il ministro Cingolani parla di un grande e inaccettabile «ricatto» russo. Ma cosa sono state gran parte delle nostre sanzioni (dal

congelamento dei beni della Banca Centrale russa all’esclusione delle principali istituzioni finanziarie russe dal sistema di scambi internazionali Swift) se non un gigantesco e calcolato «ricatto»? Cosa ci aspettavamo? Che la spirale si interrompesse per gentile concessione del destino o direttamente di quel Putin che molti leader europei descrivono come un puro e semplice criminale di guerra?

Si badi: nessuno pensa che Putin non porti responsabilità atroci e ingiustificabili nell’aggressione di febbraio e dunque nessuno pensa che l’Ue non abbia tutto il diritto di agire e reagire. Il punto vero è come lo fa.

La mia impressione è che l’Europa cammini, un po’ per inerzia e un po’ per disciplina atlantista, sulla strada perigliosa di una lunga guerra da armare, combattere e vincere sul campo (contro una potenza nucleare) a ogni costo.

Non invece sul terreno di un lavoro di ricostruzione diplomatica delle condizioni della pace e della stabilità, che consiglierebbe di rimettere al centro il presupposto dell’integrità territoriale ucraina insieme ai protocolli di Minsk e a una nuova riflessione sulla sicurezza dell’area da compiersi di concerto con Mosca.

Dimenticandosi delle proprie origini (quella CECA nata vincolando reciprocamente gli interessi produttivi dei Paesi fondatori e costruendo su questo patto di solidarietà produttiva ed economica sia il progetto politico unitario sia la garanzia di una pace duratura), oggi l’Unione europea rischia di perseguire un’ambizione ben diversa. Il discorso sull’Europa di Scholz all’Università Carolina di Praga dello scorso 29 agosto è, con la sua propensione strategicamente oppositiva a Russia e Cina, da studiare con attenzione.

Senza abbassare le armi di tutti, quelle militari e quelle economiche, e senza praticare una vera autonomia strategica europea, continueremo ad avere la guerra nel cuore del Continente. E a ottobre ci troveremo a fronteggiare, in Italia più che altrove, problemi drammatici in termini di inflazione, ulteriori rincari delle bollette, disastri nelle catene di approvvigionamento, come ci sta dicendo l’intero tessuto industriale italiano, e contraccolpi micidiali sul terreno occupazionale. Problemi ulteriori, non inediti: basti vedere gli incrementi già registrati dei tassi di interesse e gli indicatori congiunturali che già oggi accendono più di un allarme (dalla diminuzione in giugno del 2,1% in un mese della produzione industriale all’inflazione all’8,4%).

Più in generale noi paghiamo oggi l’assenza di un piano europeo – condiviso e costruito con tutti gli interlocutori economici, commerciali e industriali dei Paesi dell’Unione – che indichi chiaramente qual è la direzione della transizione energetica. Che dica chi deve farsi carico della parte più rilevante dei suoi costi e dei costi del suo rallentamento: le grandi compagnie energetiche (che stanno maturando immani extra-profitti) o i cittadini, gli utenti e i lavoratori tragicamente impoveriti?

E, infine, che metta in discussione il modello generale, che affida in buona misura ai mercati finanziari, e alla loro vocazione speculativa, la determinazione dei prezzi delle materie prime e dell’energia. È così indicibile pensare che i prezzi siano oggetto invece di una programmazione e di una pianificazione pubblica su scala europea? Mi fermo. Anche in questa campagna elettorale occorrerebbe forse, oltre al rosso e al nero, almeno un pezzo di questa analisi.