Riace
Nel 2015, dopo gli esiti tragici delle “Primavere arabe”, una massiccia ondata di profughi dal Nordafrica verso l’Europa era prevedibile. Eppure, il nostro Paese si fece cogliere impreparato, impantanandosi nella polemica tra fautori dell’accoglienza e oppositori.
Della accoglienza sempre e comunque – spesso poco attenti alle condizioni strutturali della stessa e al suo impatto effettivo sulla vita delle persone – e oltranzisti del respingimento, ostili per principio a qualsiasi possibilità di “fare spazio” ai richiedenti asilo nella nostra società e nei nostri territori. A prevalere fu la lettura emergenziale del fenomeno e, quindi, la scelta politica di allestire grandi hotspot e centri di accoglienza ad hoc, spesso situati ai margini di aree metropolitane già gravate da disagio sociale.
Nonostante ciò, tra il 2015 e il 2018, si è realizzata una effettiva redistribuzione dei richiedenti asilo sul territorio nazionale dagli effetti in gran parte imprevisti. Nel quadro di una politica di ricollocamento che mirava a sgravare le grandi città del peso della accoglienza e grazie alle capillari iniziative dei sindaci e della società civile siamo giunti ad avere nel 2018 oltre il 40% dei profughi ospitati in aree interne, spesso in piccoli progetti legati all’allora sistema Sprar.
Come documentato dalle ricerche condotte in quegli anni (tra cui lo studio sui “montanari per forza” realizzato da Dislivelli e la ricerca sugli “Alpine Refugees” condotta da ForAlps), proprio queste aree sono state spesso in grado di fare leva sull’arrivo dei profughi per ridare linfa a comunità stremate dal punto di vista demografico, economico e sociale. Grazie alla sinergia tra i fondi statali per l’ospitalità e le capacità di innovazione dimostrate dai soggetti territoriali: riattivazione di economie circolari, creazione di piccole cooperative di lavoro, manutenzione dei beni comuni, servizi di prossimità per gli anziani, formazione professionale indirizzata alle vocazioni territoriali; ma anche mantenimento degli sportelli postali, del trasporto pubblico locale, di piccole scuole a rischio di chiusura.
La presenza dei rifugiati nelle aree interne ha generato un impatto globalmente positivo per le comunità ospitanti (come analizzato dal progetto europeo Matilde), senza nascondere alcuni elementi di criticità: dove sono mancati interventi e politiche di radicamento locale, legati al lavoro e alle relazioni sociali, tanti infatti sono gli stranieri accolti che alla fine si sono spostati in città.
Eppure il nesso tra accoglienza dei profughi e sviluppo territoriale non è stato messo al centro di alcuna politica nazionale negli anni a seguire: anzi, una nuova retorica politica ha finito con l’imporsi, propagandando con violenza l’equazione tra rifugiati e costo sociale, tra immigrazione e minaccia per la società.
Lo smantellamento del sistema Sprar, la denigrazione e poi l’attacco giudiziario al caso emblematico di Riace, la totale indifferenza verso le morti nel Mediterraneo sotto la bandiera del respingimento ad oltranza, sono alcuni dei principali passaggi che ci hanno portato a non aver fatto tesoro di quelle esperienze positive; perlomeno non a livello di Stato centrale e di quei soggetti che oggi si devono occupare del nuovo, incredibilmente maggiore e complesso arrivo di profughi dall’Ucraina.
Oggi sappiamo che decine, forse centinaia di migliaia, , sono in arrivo in Italia nelle prossime settimane. Sappiamo che giungeranno anzitutto nelle grandi città, già provate da due anni di pandemia claustrofobica, con la crisi energetica, il crescente costo della vita e la penuria di alloggi disponibili: città che non sembrano in grado di accogliere, inserire e includere tutte queste persone, se non a costo di enormi tensioni sociali.
A fronte delle ingenti risorse economiche che il governo si troverà a dover stanziare per garantire l’accoglienza dei profughi (questa volta unanimemente non respinti), si apre allora una occasione per rivitalizzare il sistema del ricollocamento, privilegiando proprio le aree interne. Immobili che si possono riqualificare, comunità in sofferenza demografica, servizi territoriali che possono trovare nuovi utenti: accogliere i profughi nei piccoli comuni delle aree interne – nel quadro di un piano nazionale che sappia coniugare emergenza e programmazione, solidarietà e sviluppo locale, e che riconosca il protagonismo degli abitanti di questi territori – può essere dunque una azione lungimirante. Certo dobbiamo essere consapevoli del cambio di scala imposto da questi flussi, della prevalenza di donne e di bambini, della differenziazione interna per istruzione e qualificazione professionale.
Bisogna inoltre considerare il carattere presumibilmente temporaneo di buona parte di questa ondata immigratoria, con aspettative di rientro al proprio Paese nel medio periodo e aspirazioni da rispettare. Le città resteranno il primo polo di inserimento di queste persone: tuttavia, proprio a partire dalla accoglienza diffusa in aree interne, abbiamo oggi la possibilità di aprire una pagina nuova. Non facciamoci cogliere impreparati come nel 2015.
L’autore fa parte dell’Associazione Riabitare l’Italia