Costituzione rimossa. L'articolo 11 non prescrive solo il ripudio della guerra offensiva ma indica le organizzazioni internazionali come soggetti deputati a perseguire con ogni mezzo la pace
Vasily Nebenzya, ambasciatore russo all'Onu, lascia la seduta prima dell'intervento del delegato ucraino © Ap
Nel dibattito parlamentare sulla guerra in Ucraina la Costituzione è stata rimossa. Mai richiamata né nell’intervento del presidente del Consiglio, né nella risoluzione approvata con il concorso di maggioranza e opposizione. In fondo può comprendersi.
Non è facile coniugare lo scontro armato con il diritto, la guerra assieme al suo «ripudio». Ben presente invece la Nato, richiamata nel discorso rivolto alle Camere per ben sei volte. C’è allora da chiedersi se, in caso di guerra, i principi costituzionali debbano essere sostituiti con i vincoli internazionali. Domanda per nulla peregrina poiché è evidente che la crisi Ucraina ha una sua determinante dimensione globale e la soluzione deve essere ricercata coinvolgendo il diritto internazionale più che quello nazionale. Ciò non toglie però che il comportamento del nostro Governo, anche sul piano dei rapporti con gli altri Stati e nelle organizzazioni cui è parte, deve essere indirizzato dalla sua legge suprema.
D’altronde la nostra Costituzione fornisce precise indicazioni. Non tanto nelle disposizioni che prevedono il «sacro dovere di difesa della Patria» (art. 52) e dunque la legittimità della guerra difensiva (secondo quanto specificato negli articoli 78, 60 e 87), quanto nel sempre richiamato, ma poco meditato, articolo 11 della Costituzione. È questa una disposizione più articolata e meno «arresa» di quanto non si dica solitamente.
Infatti, non solo si enuncia il principio pacifista del «ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma si indica con chiarezza in che modo si deve assicurare quest’obiettivo. In assoluta continuità concettuale, stilistica e sostanziale (l’articolo non è distinto in commi, bensì composto da un’unica frase separata da punti e virgola) si richiamano le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Nei confronti di queste, in condizioni di parità, sono ammesse limitazioni di sovranità; richiedendosi altresì che esse siano promosse e favorite. Il richiamo all’Onu è del tutto esplicito (anche storicamente fondato, basta leggere gli atti dell’Assemblea costituente).
Non può invece farsi risalire a questa disposizione né la nostra adesione alla Nato, né i vincoli di natura militare che comporta. Il che non vuol dire che sia «incostituzionale» l’adesione al patto atlantico (almeno fin tanto che si presenta come organizzazione di «difesa» dei Paesi aderenti), ma semplicemente che non è questa l’organizzazione idonea a conseguire l’obiettivo supremo della pace e la giustizia tra le Nazioni. Non è neppure difficile comprendere perché sia necessario affidarsi ad organizzazioni che perseguono la pace come obiettivo e non la difesa armata come strategia. In Ucraina, in questo momento, se vuoi la pace devi far cessare il confronto militare, non solo quello armato che sta producendo gli orrori della guerra, ma anche quello tra le potenze e gli Stati che si armano per continuare lo scontro, magari in altre forme.
È il tempo dei «costruttori di pace», ovvero di soggetti che in piena autonomia possano operare come mediatori tra le parti in lotta. Organizzazioni terze, non perché prive di giudizio – è chiaro in questo caso chi siano gli aggressori e chi le vittime – ma perché estranee al conflitto. Per poter svolgere la funzione di mediazione necessaria, infatti, non si può al tempo stesso partecipare alla guerra.
Sono note le enormi difficoltà in cui si trova ad operare oggi l’Onu. Ma, nel rispetto del principio pacifista della nostra Costituzione, ci si può arrendere e piegare alle logiche di potenza che stanno prevalendo, alla cultura del riarmo come strumento di difesa, all’orribile latinetto «si vis pacem, para bellum»? Ma veramente si pensa di poter fermare l’esercito di Putin contrapponendogli le vittime civili e armando agli aggrediti?
Non voltarsi dall’altra parte oggi vuol dire dirsi disponibili a mediare, chiedere a gran voce – l’intera comunità internazionale – una conferenza internazionale per affrontare la questione Ucraina, disposti a riconsiderare i rapporti geopolitici che ci hanno condotto alla soglia della distruzione dell’intera umanità. Una soglia che varcheremo se dovessero concretizzarsi le minacce nucleari, che vengono ormai cinicamente prospettate, con incredibile superficialità, dai vari leader del mondo.
Una domanda prima di ogni altra dovremmo a questo punto con urgenza e realisticamente porci: se non può essere l’Onu l’organizzazione internazionale in grado di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», riaffermando «la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole» (così è scritto nel preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite), chi altri? Seguendo la via maestra della nostra Costituzione – oltre che il nostro senso dell’umano – qualunque organizzazione internazionale rivolta a tali scopi. Un ruolo non indifferente possono esercitare le organizzazioni sociali non governative, le chiese e i partiti che credono che per costruire la pace non bisogna prepararsi alla guerra.