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Costituzione e guerra. Si pone una domanda sulla compatibilità con la Costituzione della linea emersa dalle dichiarazioni di Draghi e dalla risoluzione approvata in parlamento sul conflitto in Ucraina. Una domanda legittima, che non vede risolti tutti i dubbi in uno scenario di guerra che può incidere sugli equilibri geopolitici globali

 

Si pone una domanda sulla compatibilità con la Costituzione della linea emersa dalle dichiarazioni di Draghi e dalla risoluzione approvata in parlamento sul conflitto in Ucraina. Una domanda legittima, che non vede risolti tutti i dubbi in uno scenario di guerra che può incidere sugli equilibri geopolitici globali. Segnali significativi vengono dal riarmo tedesco e dal voto nell’Assemblea generale Onu del 2 marzo.

Diciamo subito che la Costituzione non è per un pacifismo senza se e senza ma. Per l’articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Mentre l’articolo 52 definisce la difesa della patria un sacro dovere del cittadino. Dunque, la difesa armata è sempre consentita, ed anzi doverosa. La guerra di aggressione non è consentita mai. E certamente nessuna generazione potrebbe conoscere la differenza meglio di quella che scrisse la Costituzione.

Sì alla difesa, no all’aggressione. Un principio lineare, esteso dall’art. 11 ai contesti internazionali attraverso il richiamo a «un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» e alle «organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Si può ritenere dunque costituzionalmente compatibile il sostegno militare volto a difendere i confini di paesi alleati e membri di organizzazioni di cui l’Italia faccia parte, come ad esempio la Nato. Altra cosa è la critica, sempre legittima, che si può volgere alle politiche messe di fatto in campo dalla Nato.

Ma l’Ucraina non è nella Nato. Dunque la domanda da porre è sulla compatibilità costituzionale del coinvolgimento in una guerra tra paesi terzi. Anche qui possiamo trarre dalla Costituzione alcune chiare risposte.
È certamente compatibile l’invio di soldati e armi in compiti strettamente di peace-keeping, ad esempio come forza di interposizione tra parti belligeranti. È chiaro il nesso con i fini di cui all’articolo 11. Ma un punto focale sarà nelle regole di ingaggio da osservare in campo, che non devono tradursi nel tentativo di esportare forzosamente la democrazia con le armi. Questo è un obiettivo che l’articolo 11 non assume. Né la compatibilità costituzionale sarebbe assicurata dalla partecipazione a iniziative sovranazionali o di alleanza. Non sfuggono i dubbi che ne possono venire su non poche delle nostre missioni militari all’estero.

E se si inviano solo armi, come faremo con l’Ucraina? Qui, diversamente da qualsiasi aiuto a carattere umanitario, il dubbio è corposo. Con l’invio ci si coinvolge inevitabilmente nel conflitto, per una parte e contro l’altra. Nulla cambia, dal punto di vista costituzionale, se è una scelta condivisa sovranazionale o di alleanza. Inoltre, nella specie sembra certo che le armi di cui si può realisticamente ipotizzare l’invio non sono in grado di modificare in misura significativa il rapporto di forze in campo. L’Ucraina è soccombente. Non è banale, allora, l’opinione per cui l’invio alla fine può solo inutilmente aggravare sofferenza e morte. Certo, rimane la speranza di guadagnare tempo per il negoziato. Ma questo sostanzialmente conferma che sono altri gli strumenti principali per aprire la via alla pace: in primis, le sanzioni economiche e gli anticorpi interni che possono stimolare contro la politica di Putin.

Il dubbio poi cresce per il metodo. In ultima analisi, ogni scelta sull’invio delle armi è affidata a tre ministeri: esteri, difesa, economia. Al parlamento si promette informazione, e nulla più. Troppo poco. Ancora una volta, se ne lamenta l’emarginazione. Ma ribadiamo che ciò accade se e quando i soggetti politici che in esso operano lo consentono. Far parte di una maggioranza non significa sostenere acriticamente un esecutivo in ogni circostanza. E una diplomazia istituzionale più o meno riservata può comunicare a un governo quel che non si accetta. Si vuole davvero dare al paese il messaggio che in una vicenda cruciale di pace e guerra il parlamento – come l’intendenza – seguirà? Dobbiamo avvertire che questioni come la riforma del catasto eccitano gli animi in misura ben maggiore?

Bisognerà puntare a far meglio, comunque attivando una occhiuta e continua vigilanza parlamentare sull’esecutivo, ed affiancando a questo nel paese una severa vigilanza democratica. In ogni caso, dovremo ricordare che non esiste una lettura della Costituzione che dia ragione a Putin. Chi aggredisce con le armi ha sempre torto.