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Mattarella all'altare della patria © LaPresse

Questa volta hanno vinto i peones. Non si può dubitare che i voti “spontanei” per un Mattarella-bis, cresciuti progressivamente fino a 387 nella settima votazione, abbiano dato una indicazione resa irresistibile dal confuso affannarsi dei leader in candidature incaute, come quella della Casellati, e indicazioni velleitarie o di bandiera.

Alla fine, la rielezione di Mattarella è il risultato migliore nella situazione data. Ma tutti hanno in vario modo perso.

Perde il parlamento, non tanto per il numero delle votazioni, alla fine contenuto, quanto per l’incerta e confusa gestione di gruppi dirigenti che non governavano il proprio partito. Ora, il centrodestra è in pezzi, il centrosinistra non è in buona salute, e si avviano le rese dei conti. Meloni attacca a testa bassa, Salvini è in palese difficoltà, e tra Conte e Di Maio volano scintille. Qualche mugugno affiora anche nel Pd.

Perde il governo, nonostante Letta si affanni a dichiarare il contrario. L’esecutivo non si rafforza quando due dei maggiori partiti che lo sostengono sono in piena bagarre e vedono più o meno apertamente contestate le leadership.

Perde infine Draghi, perché un premier pluri-osannato che si autocandida e riceve un no da forze che lo sostengono a Palazzo Chigi non esce bene dalla competizione. Non recupera riciclandosi come sponsor della rielezione di chi avrebbe voluto sostituire. Né basterà per cancellare l’onta battere i pugni sul tavolo in Consiglio dei ministri.

Vince Mattarella, con un profluvio di ringraziamenti. Ma la rielezione, per come è andata, garantisce continuità, non stabilità.

Come ho scritto, i veri contendenti in campo per il Quirinale erano dall’inizio solo due: Mattarella e Draghi. Qualunque scelta diversa sarebbe stata un minus. Dunque, il recupero di Mattarella realizza uno dei (buoni) risultati possibili. Ma il quadro politico generale si è indebolito, e nei mesi che verranno le turbolenze si riverseranno nella competizione inevitabile in vista del turno elettorale del 2023. Non si fermeranno certo alla soglia del Consiglio dei ministri.

Per non appesantire un carico di problemi di per sé gravoso, sgombriamo il campo dalle questioni inutili, a partire dai dubbi sulla piena conformità alla Costituzione del secondo mandato.

Come ha scritto Gaetano Azzariti su queste pagine, la Costituzione non pone alcun divieto, e sarebbe sbagliato pensare che la mancata previsione sia una disattenzione dei costituenti. Fu una scelta voluta. Lo dimostra la inclusione nel testo originario dell’articolo 88 del semestre bianco, che aveva senso solo assumendo la rielezione come possibile. E non c’è uno “spirito” dei costituenti che indichi il contrario. La mancanza di un divieto si deve leggere piuttosto come un margine di elasticità del modello, che è un connotato essenziale di tutta la parte relativa alla forma di governo, ed offre, a mio avviso, un pregio della Costituzione vigente. Che mandi in sofferenza i costituzionalisti non deve impressionare oltre misura.

Diciamo poi no alle pulsioni per l’elezione diretta. Un presidente eletto da una maggioranza sulla base di un programma politico presentato in una campagna elettorale formale non potrebbe mai essere un rappresentante dell’unità nazionale nel senso che oggi la Costituzione assegna al capo dello Stato. In specie nel momento storico attuale l’elezione diretta di un capo di stato o di governo è divisiva. Mentre l’esperienza di altri paesi dimostra che non necessariamente garantisce maggiore stabilità e governabilità. Meglio tenere quel che abbiamo.

Invece, il voto per il Quirinale ha messo in piena luce lo stato-semi-comatoso dei partiti politici. Qui è il vero ventre molle del sistema italiano. Dovremmo allora puntare a interventi volti in prospettiva a rivitalizzare i partiti. Fra questi, spicca la legge elettorale, che Letta fa bene a riprendere. Ma si convinca per il sistema proporzionale, il solo che può contribuire a stimolare nei soggetti politici una ricerca di identità e di progetto, e già indicato come necessario correttivo dello sciagurato taglio dei parlamentari.

A questo si potrebbero utilmente aggiungere una legge sui partiti, e una sul finanziamento pubblico da ripristinare.

Speriamo che i pruriti costituenti recedano, e che la politica italiana ritrovi una buona salute. Auguri a Mattarella, che ha contribuito almeno per il momento a contenere la febbre.