Seppure la propaganda cosmetica messa in atto quotidianamente dalle due parti di questo governo possa essere funzionale al mantenimento del consenso in questa fase iniziale, ogni contraddizione è destinata, a tempo debito, a emergere con chiarezza. La propaganda, che funziona benissimo quando non si è nella posizione di dimostrarne l’attuabilità, mal si sposa invece con l’azione di governo, che tende a farne emergere, nel tempo, i limiti. Promesse e dichiarazioni roboanti finiscono infatti per scontrarsi con i limiti istituzionali di un ruolo di governo, e con risultati necessariamente ridimensionati rispetto alle aspettative generate.
Per esempio, la contraddizione leghista è racchiusa nella figura del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, e nella sua ben nota battaglia contro i migranti. Invece di proporre, in campagna elettorale, soluzioni plausibili e attuabili (seppur forse non condivisibili) in una normale cornice istituzionale, Salvini ha mantenuto toni accesi e spesso ambigui. Alternando attacchi generalizzati ai migranti, alle ONG e alle istituzioni, toni derisori nei confronti di personalità più o meno note, e promesse di poco plausibili deportazioni di massa, Salvini ha ammiccato a quella parte d’Italia che, per le ragioni più svariate, desidera semplicemente fermare l’ondata migratoria, a prescindere dalle difficoltà e dagli eventuali limiti istituzionali. Così facendo, ha alimentato istinti xenofobi e nazionalisti per accrescere il consenso verso il suo partito.
Ora, tuttavia, questa strategia inizialmente vincente sul piano elettorale comincia a scontrarsi con i limiti del ruolo istituzionale di Salvini. Mentre il ministro continua a comunicare il medesimo discorso (per esempio con il nuovo slogan provocatorio “è finita la pacchia”), la sua azione – per quanto aggressiva – non può spingersi dove la sua propaganda ha promesso senza scontrarsi mortalmente con l’impianto istituzionale di cui egli stesso è ora parte. Il tempo, nemico della propaganda, dimostrerà sempre più chiaramente che Salvini non è in grado di fermare l’immigrazione ed eseguire il numero enorme di espulsioni che buona parte del suo elettorato si aspetta. Per quanto egli possa impegnarsi, otterrà sempre qualcosa in meno di ciò che ha promesso.
Quando questo diverrà finalmente evidente, la sua comunicazione diventerà controproducente, e il consenso si trasformerà prima in critica, poi in aperto dissenso. Una semplice occhiata ai social media (centro vitale della comunicazione salviniana) dimostra che già emerge – seppur ancora minoritario – un certo scontento: qualcuno lamenta che i migranti continuano ad arrivare, che le espulsioni continuano ad essere inefficaci, che il governo dovrebbe spingersi oltre e usare mano più ferma e piglio più autoritario. Resta poi il nodo delle altre promesse, in primis l’abolizione della legge Fornero e la flat tax, temi caldi che, seppur tenuti temporaneamente nascosti dai proclami sull’immigrazione, sono destinati a riemergere e a pesare sul futuro consenso.
Una contraddizione importante, seppure parzialmente diversa, pesa anche sulle spalle del Movimento 5 Stelle. Il Movimento, presentatosi alle elezioni con la bandiera del reddito di cittadinanza e una squadra di governo fortemente sbilanciata a sinistra, ha finito per cedere il dominio interno alla sua ala destra, ritrovandosi peraltro a dover negoziare ogni sua mossa con un partito (la Lega) schierato ancora più a destra. Se, come è facile immaginare, una parte consistente del suo elettorato è composta da disoccupati, precari e delusi della sinistra renziana e di LeU, è altrettanto facile intuire che un tale spostamento a destra è destinato a creare smottamenti consistenti nell’elettorato dei 5 Stelle.
Il cosiddetto “Decreto Dignità”, presentato dal Ministro del Lavoro Luigi di Maio come un atto rivoluzionario e un attacco diretto alle politiche del lavoro precedenti, ha tutta l’aria, in realtà, di un decreto omeopatico, fortemente contraddittorio (si veda, per esempio, la limitazione dei contratti a tempo determinato, e il contestuale allargamento delle possibilità di utilizzare lavoro in somministrazione), destinato con ogni probabilità ad avere – nel migliore dei casi – effetti moderatamente palliativi.
Il decreto, peraltro, conferma sostanzialmente l’impianto del Jobs Act e l’uso dei voucher. Deve essere certamente difficile, per il Movimento, proseguire una propaganda sostanzialmente di sinistra sul tema del lavoro, attuando nel contempo politiche del lavoro di orientamento ambiguo e negoziate con la destra. Anche in questo caso, una semplice occhiata ai social dimostra l’emergere graduale di scontento, disappunto e delusione da parte di un pezzo dell’elettorato.
Quando, col tempo, l’azione governativa dimostrerà la sostanziale incapacità di affrontare disoccupazione e precarietà, il Movimento vedrà un inevitabile e sostanziale calo dei consensi.
Entrambe queste contraddizioni mettono il governo di fronte a un vicolo cieco: mentre il M5S sbandiera idee di sinistra per poi generare “non-riforme” di destra, la Lega ha la necessità di proseguire con una propaganda aggressiva ed esasperata sui migranti, pur sapendo di non poterla attuare senza uscire dai confini della legge e dei normali rapporti istituzionali (si veda il caso della nave Diciotti).
Il temporaneo successo di questa propaganda è anche dovuto (seppur non del tutto) alla pessima reputazione di alcuni importanti attori politici e istituzionali che cercano di contrastarla (qual è oggi la reputazione del PD? della Commissione Europea?).
È plausibile però, col passare dei mesi, aspettarsi che l’ampio consenso di cui gode questo governo sia destinato a erodersi più o meno rapidamente, se non addirittura a crollare di colpo con l’emergere improvviso di troppe contraddizioni. Che cosa potrebbe succedere allora?
Mentre i 5 Stelle, focalizzati sul tema del lavoro, faranno fatica a risolvere la contraddizione (simile, peraltro, a quella rivelatasi poi disastrosa del PD renziano che, definendosi di sinistra, portava avanti politiche di destra), la destra a guida salviniana potrebbe risolverla soltanto con una svolta di tipo illiberale/autoritario, che permetta dunque azioni prima inconcepibili in una normale cornice democratica. Ammesso che questo non accada, il rischio è che il consenso si sposti ancora più a destra, verso quegli ambienti in cui la propaganda xenofoba e sovranista di stampo salviniano è legata inestricabilmente a un preciso disegno autoritario e illiberale.
Ci sarebbe, tuttavia, un’alternativa più auspicabile. Non bisogna dimenticare infatti che, pur essendo la sinistra partitica in crisi e ormai dotata di una pessima reputazione, non è certo scomparso l’elettorato, che semmai si ritrova disperso, frammentato, incerto. Le contraddizioni del governo gialloverde, dunque, potrebbero essere il punto di partenza di una contro-narrazione proveniente da sinistra, che riesca a riorganizzare il suo popolo e a dar voce unitamente agli “ultimi” (migranti, precari, disoccupati, poveri, …) in una battaglia comune per la dignità umana.
Una sinistra che prenda di mira non le istituzioni nazionali ed europee, ma le idee che dominano queste istituzioni, e che sappia costruire un discorso basato sulla centralità dell’uomo e contro il dominio esclusivo di un’ormai inestricabile matassa di interessi economici, finanziari e politici. Una narrazione tale e di così ampia portata, tuttavia, deve venire davvero da sinistra. Al momento, purtroppo, si tratta di una sinistra latitante, se non addirittura inesistente.
Il Partito Democratico, pur definendosi di sinistra, si muove come un centrodestra moderato, ed è dunque destinato alla stagnazione o al calo dei consensi. Il tempo per costruire una vera sinistra, che offra un’alternativa a un inevitabile scivolamento sempre più a destra, c’è. Servono tuttavia le idee, i volti, le voci e i progetti attorno a cui riorganizzare un nuovo consenso.
(*) L’autore è socio del Circolo LeG di Ravenna.