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Credo sia giusto, e necessario, parlare di disfatta elettorale della sinistra - è evidente, sia per il PD, che per le espressioni della cosiddetta sinistra radicale – e anche prendere atto che siamo alla fine di un ciclo.

Tuttavia, non credo che i valori e le ragioni della sinistra non siano più attuali, né che non potranno trovare più un consenso di massa, ma non c’è dubbio che diverse cose vanno cambiate in profondità.

Se assumiamo, semplicemente, che il discrimine tra destra e sinistra resta “il diverso atteggiamento di fronte all’ideale dell’eguaglianza” (N. Bobbio) oggi, quando le differenze e le povertà stanno aumentando, i valori e le ragioni della sinistra resterebbero più che mai attuali.

Carlo Galli sul suo blog dice: “Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza”.

E’ una analisi utile per arrivare alle ragioni di fondo: sia del declino del Pd, che nella crisi ha “risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista”; sia dello spostamento, tra strati popolari, di un largo consenso verso il M5S e anche verso la Lega; mentre le liste di sinistra non hanno recuperato, se non marginalmente, i voti in uscita dal PD.

Per questo, accumunare M5S e Lega sotto la voce “populismi” è assolutamente sbagliato. Naturalmente, nelle espressioni di voto, pesano diverse questioni: non solo immediatamente di interesse materiale, ma anche valoriali, culturali, ecc., oltre che una generica richiesta di cambiamento e valutazioni contingenti (per impedire che prevalga la destra – o Renzi -  meglio votare M5S); ma per la sinistra guardare prioritariamente agli strati popolari, a chi ha - e conta - meno, nella società, dovrebbe essere preminente.

Questo vale verso chi ha votato M5S, che ne ha recuperato il maggior consenso, il fatto di dichiararsi “né di destra né di sinistra” (e guardando a cosa dice, e fa, si può anche dire che è vero) non dovrebbe impedire invece di incalzarlo verso posizioni progressiste e di sinistra (naturalmente le scelte che decideranno di fare sugli sbocchi di governo sarà essenziale, per un giudizio più preciso).

Ma dato che voti popolari, provenienti da sinistra (seppur in misura minore) sono andati anche verso la Lega, non basta denunciare, giustamente, la pericolosità delle posizioni della destra, occorre contrastarla affrontando anche le cause, vere, e/o presunte, dell’insicurezza, della precarietà, ecc. che viene pagata soprattutto dagli strati più poveri. A proposito della Lega e, per esempio, delle loro posizioni sull’immigrazione, viene in mente la frase dell’aristocratico Mr. Schermerhorn, nel film Gangs of New York di Martin Scorsese: “Si può sempre assoldare una metà dei poveri per uccidere l’altra metà”.                                                                                             

Beppe Casadio ha affermato, ancora prima delle elezioni, e poi scritto: “E’ tempo di riaprire un discorso pubblico sul potere e sulla sua distribuzione”. Questa è una delle questioni essenziali per poter ridefinire un ruolo e una azione incisiva della sinistra, per un’altra idea di società e di sviluppo, sulla quale avviare una riflessione sia a carattere generale, che ai livelli territoriali.

Stante alle prime reazioni dei vari esponenti delle sinistre, non pare che ci sia coscienza di queste necessità, e di queste riflessioni, sia in chi torna a guardare al PD (magari senza Renzi), sia tra chi si arrocca su dichiarazioni “antagoniste”. In entrambi i casi queste posizioni portano a non trovare convergenze unitarie né nelle iniziative specifiche, né tanto meno in scadenze elettorali (nelle quali il consenso che possono trovare, attualmente, lo abbiamo visto).

Proviamo allora a sollecitarla questa riflessione su cosa dovrebbe essere cambiato a sinistra, stimolando tutt* coloro che possono essere coinvolti, qualsiasi sia la collocazione, o non collocazione, elettorale.

Tralasciamo, almeno per l’immediato, di cimentarsi sulle ipotesi per gli sbocchi istituzionali e di governo nazionale, così come sulle future prossime scadenze elettorali: Europee, Regionali, Amministrative (che comunque hanno caratteristiche molto diverse tra loro), per concentrarsi invece su qualcosa che si potrebbe fare, anche a partire dal livelli locali.

Partire ognuno dalla propria realtà, e quindi anche dai livelli locali, non è localismo, anche perché è apparso chiaro che i vizi, i settarismi, ecc. che sono emersi tra le varie componenti delle sinistre a livello nazionale nel fallito “tentativo unitario del Brancaccio” (che non avrebbe risolto tutti i problemi, ma oggi saremmo messi un po’ meglio) non vanno semplicemente imputati ai livelli nazionali. Questi vizi sono gli stessi che si manifestano anche qui a livello locale; le responsabilità sono quindi (almeno per quota parte) anche di ognuno di noi, per quello che abbiamo fatto, o forse ancor più per quello che non abbiamo fatto.

E’ anche questo un motivo per ripartire valorizzando almeno quella parte di esperienze unitarie e positive che sono state fatte e si possono fare, senza aspettare che i “dirigenti massimi” a livello nazionale diano qualche segno (o cercando di neutralizzare quelli sbagliati che possono dare).

Tutti affermiamo la necessità di “riconnettere sinistra e società”, ma per farlo, penso che le esperienze della sinistra, del secolo scorso, sia quelle riformiste che quelle radicali, dovrebbero essere profondamente ripensate: sia nei contenuti, ci troviamo di fronte a questioni inedite (globalizzazione, crisi: economica, ambientale, climatica....) che implicano proposte compiute per “un altro modello di sviluppo”;  sia nelle forme, perché la cinghia di trasmissione partito/soggetti sociali non funziona più, così come la delega dei movimenti al partito per fare la mediazione politica...

Intendo dire che oggi, oltre a quel che resta di militanti politici diversamente articolati e più o meno attivi, a livello sociale esiste un’area ampia di “attivisti sociali” di associazioni, movimenti, sindacati, volontariato (laico e religioso), ecc. che, certo in modo frammentario e settoriale, “vuole cambiare lo stato di cose esistenti”, in senso che credo si possa definire “progressista e di sinistra” (anche se non necessariamente tutti si autodefinirebbero così) ma che comunque, in ogni caso, sono attivi, ma non sono disponibili semplicemente a delegare e a farsi rappresentare dalla politica tradizionale.

Come avranno votato? (sarebbe interessante, se fosse possibile, fare qualche sondaggio specifico…) io immagino che da lì venga senz’altro una parte dei voti a sinistra, certamente pochi per il PD, ma tanti invece al M5S, diversi non hanno proprio votato… (Enzo Scandurra parla di “società che lotta ma che non vota”).

Ma queste sono realtà importanti per chi vuole lavorare per un modello sociale più equo e sostenibile, che si possono coinvolgere a partire da contenuti specifici, non semplicemente chiedendogli di prendere la tessera di una organizzazione di sinistra.

Questo chiama in causa quella che è (dovrebbe essere) un’altra parola chiave per la sinistra: la partecipazione democratica. Naturalmente anche con caratteristiche innovative - certo diverse da quella delle cellule e delle sezioni - ma non può essere solo virtuale, non basta un click su FB, e ancor peggio non può essere la finzione dei cosiddetti “percorsi partecipativi” tesi a costruire consenso (vedi “Fermenti”). Quindi, la partecipazione che ci serve deve coinvolgere persone in carne ed ossa (non dimentichiamo che il M5S non sta solo sulla rete, continua a fare incontri settimanali – anche se possono essere più o meno qualificati); non può limitarsi a slogan, deve approfondire le questioni, avvalersi anche di conoscenze esperte, deve produrre iniziativa e mobilitazione, darsi e raggiungere risultati. In breve: non solo dire, ma fare.

Parliamone.