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di Alessandro Messina

Ha suscitato qualche perplessità nel mondo ampio della sinistra e qualche polemica un po’ rozza, more solito, nel campo renziano la scelta dei gruppi dirigenti dei movimenti della diaspora del partito democratico di Pietro Grasso come front-man (© Rangeri) della nuova formazione politica di Liberi e Uguali. Che è, per ora, qualcosa a metà strada fra un’alleanza elettorale e l’embrione del nuovo partito della sinistra. Un vessillo: questa è la mia tesi e se avete fretta o vi annoio potete fermarvi qui. 
Bandiera, simbolo: non a caso, si dice, finirà “nel” simbolo elettorale. Ma non leader.
Innanzitutto perché è stato nominato e non eletto; nominato dai gruppi dirigenti delle formazioni che confluiscono in LeU. Diciamolo, non esisteva nessuna reale alternativa alla nomina dall’alto del “rappresentante comune" di questi partiti e movimenti. Nemmeno se vi avesse partecipato anche il mondo del Brancaccio. Ma sorge spontanea la domanda: c’era proprio bisogno di un nome unificante, che ha l’aspetto più di un candidato premier che di un capo politico?
Sì ce n’era bisogno, perché il pericolo da tutti agitato era quello di ripetere l’infausta esperienza della lista Arcobaleno: se non ci si mette d’accordo nemmeno sul nome di un rappresentante comune non si dà nessuna credibilità ad una lista che vuole anche essere il primo passo per la costruzione di un nuovo partito unitario della sinistra.
Sì, ce n’era bisogno, perché oramai i media trattano la politica come fosse uno sport o forse meglio come le corse dei cavalli, e quindi un nome ci vuole perché altrimenti i giornalisti nemmeno ti nominano; poi dipende da te se è un capo, un cavallo che si tira dietro tutti e che va dove gli pare, oppure invece è solo il contadino della prima fila de “Il quarto stato”, uno, il più visibile, del branco.
Ma non era meglio eleggerlo piuttosto che nominarlo?
No, non era possibile perché grazie al cielo non si è trattato di una annessione ma di una confluenza, di partiti piccoli, poco formalizzati per fortuna, che non potevano riconoscere la leadership di qualcuno fra loro. E allora, hanno detto i giornalisti ancora una volta “un papa straniero”.
Ma non è così: innanzitutto perché non sarà “papa” e in secondo luogo perché non è “straniero”.
Mi spiego. Se l’ignobile legge elettorale (rosatellumBis) in conformità con la mentalità padronale che accomuna Renzi e Berlusconi, impone di indicare un “capo” della lista (non della coalizione, e non candidato Presidente del Consiglio!) un nome bisognava pur indicarlo e badate bene

non si tratterà certamente, dato il previsto (secondo i sondaggi) risultato inconcludente ai fini del governo, di un futuro premier. Se consideriamo che LeU non è accreditata anche nella migliore delle ipotesi di poter essere un “quarto polo” prevalente (magari!!!) Grasso non sarà certamente destinato a fare il presidente del Consiglio né in caso di (improbabile) coalizione post-elettorale, né come “riserva della Repubblica”, ruolo ch’egli ha già esplicitamente rifiutato e che non potrebbe comunque ricoprire in quanto rappresentante di una precisa forza politica. Quindi niente papa.
Quanto al fatto che non sia “straniero” credo che basti poco per vedere che gran parte della nuova forza politica proviene dal Pd. Riproduce il ceto politico che si era ritrovato nella leadership bersaniana e nel patto con Sel di Italia bene comune. Dunque straniero in che senso? Che, da presidente del Senato non ha guidato o prontamente seguito la scissione di Mdp? Siamo seri , lo ha fatto quando ha potuto, a legislatura di fatto conclusa, e questa sua posizione, va detto, è quella che gli ha consentito oggi di venir riconosciuto da forze diverse come rappresentante comune, proprio perché a nessuna di esse precedentemente apparteneva pur riconoscendosi nel progetto che queste avevano avviato.
Quindi un po’ come il cacio sui maccheroni, una figura che risolve molti problemi e favorisce la confluenza, una fortuna insperata.
A coloro che sono scettici sulla scelta della figura di Grasso (e quindi anche a me stesso) voglio ricordare che si è trattato di un enorme passo avanti rispetto ai primi orientamenti di Mdp, quando si inseguiva Pisapia, un assertore poco convinto (il ché è un’aggravante) del Sì al referendum e non per questo improponibile ma incapace poi di qualunque bilancio ed analisi del risultato referendario e per questo inaccettabile, e lo si proponeva come “federatore”.
Un federatore lavora per mettere insieme soggetti ancora diversi e distanti facendo mediazioni facilitando convergenze, e va detto che per le sue posizioni politiche Giuliano Pisapia era proprio inadatto a tale scopo, a meno che le mediazioni da fare non fossero quelle con il Pd.
Ora una bandiera, qual è a mio parere Grasso, è invece un insieme di valori e di obiettivi nei quali ci si riconosce tutti, è qualcosa che rappresenta una confluenza o un accordo già concluso: un bel passo avanti!
Ho accennato poco sopra al fatto che comunque sono fra coloro che si devono convincere della bontà della scelta e quindi devo spiegare quali sono le mie riserve, che poco contano ma ci sono e non sono forse soltanto le mie.
Ancora una volta un ex magistrato che passa in politica: lo so che lo hanno fatto tutte (proprio tutte!) le forze politiche ma nulla mi toglie dalla testa che non va bene, soprattutto perché riduce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e convince i giovani magistrati che quella è la prospettiva.
Un ex presidente del Senato, lo si giudica anche (ma non soprattutto) per come ha esercitato la sua funzione. Debbo essere sincero: in molte, troppe occasioni non mi è piaciuto. Capisco benissimo che la sua posizione è stata difficile in un parlamento squalificato e a volte ardua di fronte all’arroganza del potere esecutivo e alla mancanza di una sponda neutrale al Quirinale, ma la garanzia che un presidente eletto dalla sola maggioranza deve offrire alle opposizioni è spesso mancata. Troppi strappi subiti, troppe interpretazioni del regolamento quasi sempre favorevoli alla maggioranza, le buone iniziative di modifiche regolamentari in fine legislatura non bastano per cambiare il mio giudizio sul suo operato. Forse in qualche circostanza le dimissioni lo hanno tentato ma ha ritenuto più utile restare: io penso che abbia sbagliato.
Una bandiera però la si giudica anche per i colori ed soprattutto per i valori che rappresenta. Se leggete il suo discorso all’Atlantico di Roma vi ritroverete in modo chiaro i valori unificanti della sinistra, la rivendicazione di un percorso personale al fianco degli altri e al servizio del paese, un noi al posto dell’io, alcune scelte ben esplicitate, che possono piacere o meno, come quella europeista, ma che in una nascente forza politica devono essere fissate con chiarezza.
La sua vita ed il suo impegno garantiscono che la lotta alle mafie ed alla corruzione sono priorità della sinistra che rinasce.
C’è un appello ad un percorso partecipato anche dal basso per costruire un programma ed un richiamo finale, fondamentale, non solo all’art. 3 ma alla Costituzione come progetto da attuare.
E’ una bella bandiera.
Rivolgo un’umile preghiera: non stropicciatela, non mettete il suo nome nel simbolo elettorale cedendo alla rozza pratica del personalismo. Non serve per esorcizzare la paura della “cosa rossa”, della formazione identitaria. Sono le scelte politiche ed i metodi che fanno la differenza.

5 dicembre 2017