Legge elettorale . Il Pd sembra tener fermo il rifiuto delle coalizioni e il mantenimento della soglia del 40% per l’assegnazione di un eventuale premio. Da una parte, è una scelta obbligata, perché non è in grado oggi di costruire una qualche coalizione; dall’altra, la soglia al 40% si presta a una campagna elettorale giocata tutta sul “voto utile” e sulla contrapposizione sistema/anti-sistema
Ottenuta la sua reinvestitura plebiscitaria, Matteo Renzi ha provato a scaricare sull’«accozzaglia» del No la colpa dell’impasse attuale sulla legge elettorale.
Sconcertante e demagogico, ma anche un gioco fin troppo scoperto: Matteo Renzi vuole solo far passare il tempo.
Perché pensa che il quadro attuale emerso dalle sentenze della Consulta, con alcuni minimi aggiustamenti da apportare in extremis, sia in fondo la soluzione per lui più conveniente. Dal punto di vista strategico, i punti cruciali sono due: le coalizioni, si introducono anche alla Camera o si eliminano anche al Senato? E che cosa si intende quando si proclama di voler conservare un qualche “correttivo maggioritario”?
Il Pd sembra tener fermo il rifiuto delle coalizioni e il mantenimento della soglia del 40% per l’assegnazione di un eventuale premio. Quale è la logica politica di questa posizione? Da una parte, è una scelta obbligata, perché il Pd non è in grado oggi di costruire una qualche coalizione; dall’altra, la soglia al 40% (e in ciò vi è una convergenza con il M5S) si presta ad una campagna elettorale giocata tutta sul “voto utile” e sulla contrapposizione sistema/anti-sistema. Un modo per forzare una dialettica bipolare su un terreno che non riflette in alcun modo la reale articolazione delle forze in campo.
È una scelta strategica insidiosa, ma che può anche essere smascherata di fronte agli elettori, se non altro per la scarsa probabilità che una singola lista possa toccare quella soglia. Se così sarà, il sistema diviene a pieno titolo proporzionale (salvo gli effetti delle soglie di sbarramento) e non vi è alcuna necessità di sottoscrivere alleanze o patti preventivi: ogni forza si presenta autonomamente agli elettori, chiederà consensi per rappresentare le proprie idee; ma sarà anche inevitabilmente costretta a dichiarare se e come metterà in gioco la propria forza nella futura dialettica parlamentare, in vista della formazione di una maggioranza di governo.
Se lo scenario più probabile è questo, cosa ne deriva per le possibili opzioni strategiche delle varie forze che si muovono a sinistra del Pd? In primo luogo, perde ogni immediata rilevanza la discussione lacerante sui rapporti con il Pd: compito della sinistra sarà quello di presentare agli elettori una proposta credibile, autonoma, che si ponga apertamente l’obiettivo di pesare nei futuri equilibri di governo, sulla base della forza che gli elettori le concederanno, senza auto-confinamenti in una “ridotta” minoritaria.
Anche con un sistema proporzionale, è bene ricordare, funziona – eccome! – il “voto utile”: ed è utile un voto percepito come un voto che “conta” e non rischia di essere sprecato. Pisapia, Bersani e molti altri continuano a parlare di un “centrosinistra largo e plurale”: si può essere d’accordo, se con ciò si intende la costruzione di uno schieramento ampio, che vada oltre le sigle attuali e, ad esempio, valorizzi le coalizioni civiche emerse in molte città o le energie emerse durante il referendum. Ma perché parlare ancora di un “centrosinistra”?
Non ci si può nascondere che il termine è oramai logoro, evoca stagioni passate e si rivela in sé poco mobilitante. Piuttosto, perché non dire e proporsi di voler ricostruire, semplicemente (si fa per dire…) una “sinistra”? Di ridare voce e rappresentanza a tante energie oggi disperse e silenziose, rivolgendosi, ad esempio, anche a quelle centinaia di migliaia di elettori che non si sono più sentiti coinvolti nelle primarie del Pd?
Su questa base, il problema del rapporto con il Pd non può certo essere eluso, ma si potrà porre su basi molto più concrete (ma così pure anche quello del rapporto con il M5S), sulla base cioè dei rapporti di forza che emergeranno dal voto e dal conseguente livello di mediazione programmatica (più o meno accettabile) che sarà possibile perseguire. E non si possono astrattamente, oggi, prefigurare i possibili scenari. Ad esempio, per quanto Renzi continui imperterrito con la sua sempre più stanca narrazione e scalpiti per il suo ritorno a Palazzo Chigi, l’identificazione tra segretario e “premier” è tutt’altro che scontata, nelle condizioni che potranno emergere dal voto.
In ogni caso, ciò che conta è l’avvio di una ricostruzione della sinistra nel nostro paese. E il primo passo, evidentemente, sarà quello di costruire una lista unitaria a sinistra, e non solo per evitare la tagliola degli sbarramenti. Sembra che questa consapevolezza si stia facendo strada: presentarsi con tre o quattro liste a sinistra sarebbe soltanto suicida. Ma se è così, urge un’iniziativa politica, e in tempi brevi, evitando operazioni affrettate alla vigilia delle elezioni. Ci sono certo differenze programmatiche, e storie diverse alle spalle; ma è proprio così difficile trovare una base comune? Ed è davvero produttivo dedicarsi alla sistematica ricerca delle altrui incoerenze, passate o presenti? E chi può dire, poi, di esserne immune? Insomma, occorre muoversi: si ha l’impressione che tutti stiano a guardare le mosse degli altri: ma occorre lanciare la volata, e al più presto.