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Una ricerca Ocse certifica gli effetti della misura nei Paesi dove è presente, mentre in Italia permane l'assenza. L'analisi dell'economista Stefano Scarpetta

Salario minimo, perché la proposta M5S non convince 

Sono gli economisti dell’Ocse ad affermare che l'aggiustamento dei salari minimi per proteggere dal caro-prezzi, nei Paesi in cui è stato introdotto, ha contribuito a contenere l'impatto dell'inflazione sul potere d'acquisto dei lavoratori a bassa retribuzione, con un rischio "limitato" di alimentare ulteriormente i rincari. Lo studio, messo a punto da Sandrine Cazes e Andrea Garnero, è stato pubblicato dal Centro per la ricerca sulla politica economica e si inserisce nel dibattito in corso in Italia sull’introduzione del salario minimo. Il governo, dopo la prima netta contrarietà, sta studiando il modo per non procedere con una posizione che sta risultando impopolare, mentre buona parte dell’opposizione spinge per l’adozione della misura e lo stesso fa la Cgil, sul piano sindacale, chiedendo anche un più ampio intervento legislativo in materia.  

Spirale dubbia

La ricerca dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico risponde anche a chi sostiene che tale misura innescherebbe la spirale salari-prezzi (rapporto diretto tra maggiore disponibilità di reddito e innalzamento dell’inflazione): "La maggior parte degli studi empirici concorda sul fatto che parte degli aumenti del salario minimo viene trasferita ai consumatori" e i dati che vengono, ad esempio, dal Regno Unito attestano che un aumento del salario minimo del 20% porterebbe solo a un aumento dell'inflazione dello 0,2%, cioè "minimo”. 

Stefano Scarpetta, direttore per il lavoro, l'occupazione e le politiche sociali dell'Ocse e coautore del volume Un mondo diviso – come l’Occidente ha perso crescita e coesione sociale, ci spiega che "due sono i ragionamenti: il primo riguarda in generale il ‘sì o no’ al salario minimo statutario, il dibattito che è ora aperto in Italia; il secondo su quale sia il ruolo che ha svolto il salario minimo e il suo adeguamento in molti Paesi Ocse durante l’ultimo anno, caratterizzato da un’alta e perdurante inflazione, soprattutto nel proteggere i lavoratori a basso reddito”.

 

L’economista ricorda che "in alcuni Paesi come Francia, Belgio e Lussemburgo il salario minimo si adegua automaticamente all’inflazione, in altri Paesi con una decisione presa dal governo o da commissioni, portando l’esempio della Germania dove la commissione è tripartita, comprende quindi anche sindacati e imprese, e ha poteri decisionali anche se la decisione ultima spetta al governo". Siamo quindi in presenza di una molteplicità di meccanismi. "È stato notato che in area Ocse, dall’invasione russa dell’Ucraina, i salari reali sono diminuiti del 3-4% (in Italia anche oltre 5%, ndr), mentre per i lavoratori coinvolti dal salario minimo la perdita è stata inferiore proprio a causa dell’adeguamento totale o parziale avvenuto automaticamente o per decisione di governi e commissioni con misure ad hoc".

L'Italia, dove il salario non sale

Discorso diverso per l’Italia dove si sta parlando del bisogno in generale del salario minimo, al di là del problema che si ha ora dell’alta inflazione. "In Italia, unica nei Paesi Ocse, i salari nel 2022 erano proporzionalmente più bassi che nel 1990 - afferma Scarpetta - mentre i salari reali sono aumentati in questo periodo di oltre il 30% in Germania e Francia e di oltre il 59% negli Stati Uniti. I salari stagnanti in Italia sono chiaramente legati a una dinamica della produttività anemica. Il salario minimo non può incidere ovviamente su quest’ultima ma può contribuire ad affrontare il problema dei lavoratori poveri".

Dei 38 Paesi Ocse sono 30 ad avere il salario minimo statutario, deciso quindi per legge. "Stiamo parlando di Paesi europei, ma anche degli Stati Uniti, e comunque anche di Paesi con una contrattazione collettiva molto diffusa, almeno quanto in Italia. Basti vedere, ancora una volta, la Germania dove anche in presenza di contrattazione collettiva con minimi ragionevoli, l’incidenza dei ‘working poor’ con una retribuzione orari di 4-5 euro era diventata insostenibile".

Scarpetta fa poi notare che il salario minimo "da solo può non essere una misura efficace di lotta alla povertà: può infatti essere percepito da giovani che magari vivono ancora con i genitori e non in stato di povertà. Allo stesso tempo in salario minimo anche generoso può non essere sufficiente per evitare il rischio di povertà per lavoratori e lavoratrici che hanno una famiglia, magari numerosa". Da qui la necessità di pensare a un sistema di misure e non a un singolo strumento per combattere la povertà e "ridurre i divari tra chi sta proprio in basso e gli altri lavoratori".

Né troppo basso, né troppo alto

"È inoltre utile fare un discorso sul livello del salario minimo, affinché possa avere un effetto: se è troppo elevato, il rischio è quello di creare una potenzialmente ulteriore disoccupazione o attività sommerse come il lavoro nero o grigio; se invece è troppo basso, abbiamo un effetto limitato di contenimento della povertà lavorativa". Scarpetta ci racconta cosa sta accedendo negli Stati Uniti: "Il salario minimo federale da tanto tempo non viene aumentato e quindi ha perso di rilevanza, ma oltre la metà degli stati singoli lo hanno adeguato autonomamente. Prima Obama e ora Biden hanno avuto l’obiettivo di portarlo a 15 dollari, ma la misura deve ora essere approvata dal Congresso e i tempi sono lunghi".

Anche in un Paese come il nostro "il livello è un elemento importante per all’impatto che può avere. Senza dimenticare, inoltre, che c’è una direttiva europea alla quale tutti i Paesi, compresa l’Italia, si dovranno adeguare. Lo hanno fatto persino i Paesi del Nord Europa, che non ne hanno mai sentito il bisogno perché hanno una contrattazione collettiva che funziona molto bene".

Se il lavoro è sempre più povero

L’economista dell'Ocse individua poi il problema italiano: "Benché si abbia una contrattazione collettiva che in teoria copre la maggior parte dei lavoratori, una parte di essi è in una situazione di povertà lavorativa, con remunerazioni molto basse, anche a causa di nuove tipologie di lavoro, come nel settore dei servizi alla persona e della logistica, e ci sono contratti di settore ancora non aggiornati da anni. È quanto successo anche in Germania dove inizialmente è stato introdotto un salario minimo moderato, 8,25 euro all’ora, poi aumentato testando il mercato, gli effetti e la reazione delle imprese per evitare un trasferimento verso attività non dichiarate o una crescita della disoccupazione. Il potere contrattuale dei sindacati non è stato ridotto, ma ha avvicinato i lavoratori prima marginali al sindacato stesso, anche in quanto membro della commissione tripartita e deputato a decidere aumenti che riguardano direttamente i lavoratori".

Il salario minimo è quindi “uno strumento utile – conclude -, ma deve essere introdotto bene e non facendo teoria pura. Tutto dipende come viene definito, adeguato nel tempo da chi decide gli aumenti e dal ruolo delle parti sociali. Tutti elementi sui quali bisogna riflettere andando al di là del ‘sì o no’ ideologico”.