Il documento unitario dedica grande spazio alle politiche industriali. Miceli, Cgil: "Il Paese è isolato in Europa, rischiamo di scivolare indietro"
Politiche industriali, investimenti pubblici e privati, pieno utilizzo delle risorse del Pnrr e dei fondi di coesione europei e nazionali. Alla “crescita sostenibile” del Paese serve tutto questo. Cgil, Cisl e Uil lo dicono chiaramente nel documento unitario con cui chiamano alla mobilitazione le lavoratrici e i lavoratori italiani.
Ma la crescita non basta. C’è da “governare in modo partecipato e condiviso” la grande sfida del presente: la transizione digitale, green ed energetica. Temi d’elezione del segretario confederale Cgil Emilio Miceli, per un approfondimento che rimette l’Italia pienamente dentro il contesto europeo e disegna il necessario nuovo modello di sviluppo.
Iniziamo dalle politiche industriali. A che punto siamo?
Se dovessimo fare un raffronto tra gli obiettivi di politica industriale che via via sono stati definiti dai governi e la realtà materiale in cui ci troviamo, credo si possa tragicamente dire che non abbiamo fatto passi avanti. I grandi punti di crisi sono rimasti tali. E i grandi filoni su cui concentrare gli investimenti, in ordine sia ai processi digitali sia a quelli legati al cambio energetico, sono ancora lì a manifestarci con chiarezza i ritardi di cui soffre il Paese.
Di quali ritardi stiamo parlando? Ad esempio?
Facciamo grandi discussioni sull’idrogeno, e su questo punto l’Italia marca un ritardo pesante. Lo stesso possiamo dire per la produzione di batterie. Tutti avvertono l’importanza di segnare una propria sovranità tecnologica e industriale: anche qui nessun passo avanti. Se poi stiamo al grande tema del passaggio al digitale, occorre dire che la vicenda Telecom, intorno cui ruota il cuore dello sviluppo delle reti del Paese, continua a non trovare risposta, anzi, a registrare drammaticamente un progressivo indebolimento. Possiamo dirla così: la differenza tra ciò che succede e ciò che s’immagina si possa fare, è talmente grande da farci nutrire grandi preoccupazioni.
Questi ritardi, però, potrebbero essere colmati dalle risorse del Pnrr. Non è così?
Il Piano, in realtà, già scontava una debolezza strutturale in tema di politiche industriali. Nel confronto europeo, notiamo che la Germania continua a indirizzare, sulla base dei propri interessi, gli obiettivi di politica industriale continentale in asse con la Francia. Un esempio? Il consorzio tra i due Paesi sulle batterie. E sempre in ambito europeo, a differenza di Germania e Francia che collaborano per sperimentare e mettere in campo iniziative industriali comuni, l’Italia è sempre più sola e isolata.
Dovrebbe essere compito del governo rompere questo isolamento…
Ecco, appunto. Alle difficoltà che potremmo definire strutturali del Paese, si aggiunge un esecutivo che si vanta di essere orgogliosamente isolato in Europa e che minaccia di bloccare il processo di sviluppo dell’Unione, scontando un ruolo progressivamente sempre più debole nel suo rapporto con le istituzioni continentali.
Anche in questo caso: un esempio di questa crescente debolezza?
Un caso emblematico è la trattativa su carburanti e sistema elettrico. La Germania ha perfino fatto adottare il metano sintetico, che i più non conoscono, mentre l’Italia non è riuscita a far entrare nelle decisioni europee i biocarburanti, conosciuti e di produzione italiana, che sono anche un possibile utile strumento per governare la transizione. Non abbiamo, quindi, né una politica dell’oggi legata a questa fase e a questa condizione storica della transizione, né un’idea compiuta di Paese che rivendichi a pieno titolo di essere tra i fondatori dell’Unione e seconda solo alla Germania per presenza industriale.
Veniamo al Pnrr: quale giudizio dare?
Abbiamo affrontato il Piano separando erroneamente la questione della transizione da quella dell’industria, mentre la transizione è il denominatore comune del futuro industriale. Questo è il vizio di fondo del Pnrr. Una parte importante del nostro sistema produttivo prima o poi si troverà di fronte a un bivio: o delocalizzare nelle aree del mondo a basso costo, seguendo il vecchio modello dell’economia fossile, o cambiare, facendo leva sugli investimenti necessari, con il tempo necessario a che questi investimenti possano decollare.
Un’alternativa che sembra preoccupare la Cgil.
A fronte del rischio di un’ulteriore polarizzazione dell’economia mondiale e di una nuova divisione internazionale del lavoro tra una parte del mondo - la più numerosa - che rimane collegata al sistema fossile, e l’altra - che semplicisticamente definirei più occidentale - che invece produce una forte riconversione attraverso le nuove tecnologie e le nuove risorse energetiche, e senza dimenticare la scarsa propensione agli investimenti che c’è in Italia, è legittima la preoccupazione di uno scivolamento all’indietro dell’industria di base del nostro Paese.
L’apprensione per un arretramento è più che ragionevole. In che condizione, dunque, è l’Italia?
Se la nostra ottica è quella della politica industriale, siamo senza dubbio in una condizione particolare. Noi siamo un Paese di trasformatori, ma non siamo né troppo grandi per sostenere grandi processi d'investimento, né troppo piccoli per poter utilizzare, come si è fatto in questi anni, la leva della svalorizzazione del lavoro per poter mantenere alta la nostra competitività. Siamo un Paese ‘intermedio’, che deve tenere assieme la capacità di cambiare il modello industriale e la valorizzazione del lavoro.
Cosa ostacola, dunque, l’avanzamento del Paese?
Dobbiamo tener conto dei nostri limiti: il forte indebitamento pubblico, la debolezza dei suoi asset finanziari, i bassi livelli demografici - non siamo un grande mercato -, la limitata presenza di grandi concentrazioni industriali. Di questi limiti dovremmo farci carico per una riflessione più attenta sia sul ruolo dello Stato e del sistema pubblico sia sulla capacità d’investimento del nostro sistema d'imprese. Su queste enormi questioni, invece, si procede con banalizzazioni e semplificazioni progressive.
Torniamo, in conclusione, al nostro punto d’inizio: la politica industriale. Cosa bisognerebbe fare?
Il nodo della politica industriale italiana sta qui: nell’assenza di ambizione a poter raggiungere gli obiettivi che gli altri Paesi stanno perseguendo. Questi sono temi che vivono o muoiono nella dimensione europea: se noi saremo capaci di batterci per un’integrazione strutturale delle istituzioni europee, in quella sede potremo trovare almeno il quadro di riferimento essenziale per fare un balzo in avanti.
Altrimenti?
Saremo costretti a gestire la vecchia ‘italietta’, che mi pare essere il sogno dell’onorevole Meloni: “italiani, razza bianca, le nostre imprese, i nostri interessi”… e nessuno sguardo attorno a noi. Un linguaggio che era già fuori contesto nella fase della prima globalizzazione e che continua ad animare il dibattito e i titoli dei giornali. In questo senso essere pessimisti è un dovere