Fanno tutto loro. Decidono, e la politica si inchina.
Pensavamo che almeno nella settimana di Natale i colossi del fossile avrebbero stabilito una tregua al loro assalto ai territori e alla loro instancabile “corsa all’ oro”, rappresentata dal pressoché totale via libera che il nuovo Governo (per altro con il beneplacito di gran parte del mondo politico e dei poteri locali) ha dato a tutto ciò che è sfruttamento delle fonti fossili.
Comparsa su Milano Finanza, e giustamente ripresa dagli organi d’informazione locali, la notizia del patto fra cugini Eni e Snam, per la realizzazione dell’ impianto di captazione e cattura dell’ anidride carbonica non è in realtà una grande novità, dal momento che a Ravenna (e non solo) si parla di tale struttura ormai da qualche anno.
Quello che colpisce è il “senso politico” dell’annuncio. Con l’ esibita stretta di mano fra gli amministratori delegati, il dott. Descalzi di Eni e il dott. Venier di Snam, si suggella ciò che le mobilitazioni ambientaliste denunciano da sempre, e su cui i politici farebbero bene a ragionare e cominciare a porre rimedio, anziché sbracciarsi per mostrarsi in prima fila ad applaudire. E cioè che il potere reale, in questo Paese - e nel nostro territorio forse un po’ più che in altri – ce l’ hanno loro, le grandi imprese del fossile, alle quali si consente sostanzialmente tutto, si continuano ad erogare sugosi sussidi, si chiedono con il cappello in mano modesti contributi fiscali (che poi per altro essi pagano solo un po’) sugli ingenti extraprofitti maturati negli ultimi tempi, si consente di aggirare procedure e vincoli.
E si arriva addirittura di sostenere – non sappiamo se in buona fede - che le maxi-opere proposte, che ci legano mani e piedi alla schiavitù del sistema delle fonti fossili, andrebbero nel senso della transizione ecologica. Lo stesso comportamento che stiamo vedendo per il programmato arrivo del rigassificatore, lo osserviamo per il Ccs: una politica che si inchina alle decisioni dei superpoteri fossili, e anche quando è tentata di esprimere delle critiche, in genere lo fa “camminando sulle uova” per il timore di compromettere equilibri e tornaconti.
Ci chiediamo se le personalità politiche (e sindacali) che oggi si affannano a salutare la “grande notizia”, e sostenere che l’impianto Ccs può dare un contributo alla transizione energetica verso la decarbonizzazione, abbiano mai dato un’occhiata agli studi scientifici al riguardo.
Impianti di Ccs sono già attivi in varie parti del mondo, ma con risultati assolutamente altalenanti. Alto costo energetico e rischio microsismico compaiono fra gli ostacoli principali. Ma dato che secondo il presidente Biden questi impianti in alcuni settori sono indispensabili, ecco che segnalazioni, approfondimenti, allarmi, controproposte che scienziati di tutto il mondo avanzano, possono rapidamente essere ridotte a cartastraccia. Così, anziché varare seri piani di riduzione consistente e veloce delle emissioni, ci si arrabatta per “compensarle”.
Compito di chi amministra, ai vari livelli, sarebbe quello di mettere sui piatti della bilancia tutti i pro e i contro e considerare con la massima attenzione che - per esempio – l’impianto texano di Petra Nova è risultato fallimentare per i costi insostenibili, quello Chevron in Australia ha dato risultati massicciamente inferiori alle aspettative, e che in Canada si è riscontrato che le emissioni prodotte erano addirittura superiori a quelle catturate.
Parlare di tecnologie a emissioni negative – fra i quali rientrerebbero gli impianti di cattura del carbonio – è nella percezione comune un tema sicuramente affascinante. Questi giganteschi macchinari, secondo i sostenitori, ci libererebbero infatti di significative quantità di carbonio, per poi confinarle sottoterra. Il fatto è che, come avviene spesso, i benefici sono nettamente superiori agli aspetti negativi solo per i profitti di chi li costruisce e li gestisce.
Infatti, realizzare questi impianti, denominati Carbon capture storage (Ccs), vicino ai camini centrali delle centrali inquinanti – come la maggior parte delle centrali a carbone e a gas, e diversi tipi di strutture industriali – per catturare le emissioni istantaneamente, significa andare incontro ad alcuni non piccoli problemi: il primo è l’elevato costo energetico. Costruire e far funzionare questi manufatti significa a sua volta bruciare energia e produrre emissioni. Inoltre va detto, come testimoniano personalità di grande e specifica esperienza, che generalmente si usa l’ammoniaca per separare il carbonio, e questo sistema genera numerose perdite e rilasci, e danneggia la natura e la salute umana. Si aggiunga che il biossido di carbonio catturato riguarderebbe un’infima quantità di quello continuamente prodotto e immesso nell’aria, dal momento che interverrebbe solo su alcune strutture industriali e non certo sull’insieme delle fonti inquinanti. Pertanto il contributo ad abbassare il tasso di CO2 (e frenare la crisi climatica) sarebbe infinitesimale.
E poi, dove andrebbe a finire il carbonio, una volta catturato? In una rete, simile a quella del gas, per trasportare e stoccare il carbonio in allocazioni geomorfologicamente adeguate, nel nostro caso i pozzi metaniferi esausti. Anche qui, incorrono due rischi non da poco: la possibilità di eventi sismici e il problema della fuoriuscita del carbonio dal sottosuolo.
Il tutto investendo fior di miliardi, che potrebbero ben altrimenti essere collocati, e legandoci in maniera sempre più inestricabile al sistema delle fonti fossili.
E’ chiaro che di fronte a queste scelte non può che manifestarsi la più vivace opposizione ambientalista e della società civile agli impianti Ccs. Al momento, i fallimenti sembrano segnare lo sviluppo di questa tecnologia, la cui prosecuzione non farà che ritardare ulteriormente le scelte nella giusta direzione, quella dell’investimento vero sulle rinnovabili, sulla produzione energetica diffusa e decentrata e sul risparmio e l’efficientamento energetico.
E’ chiaro che la ricerca può e deve andare avanti: è possibile che in futuro ci sia la maniera di costruire gli impianti con una tecnologia che vada a rimuovere il diossido di carbonio direttamente dall’atmosfera, un sistema molto più avanzato della Ccs, ma per ora è solo un’ipotesi oggetto di ricerca specialistica. E che comunque solleva anch’essa degli interrogativi, soprattutto per l’alto costo energetico.
Infine, Eni e Snam dichiarano orgogliosamente che la scelta dell’ impianto di Ccs produrrà cinquecento posti di lavoro. Vorremmo sapere come sono stati ricavati questi dati, e sinceramente non ci crederemo finché non li avremo contati. Ma più ancora, vorremmo che contestualmente venisse rimarcato che una politica di promozione vera e di realizzazione del sistema basato sulle rinnovabili di posti di lavoro ne produrrebbe nettamente di più, come testimoniano qualificate ricerche. Anche su questo ci sentiamo di criticare severamente sia le prese di posizione politiche che plaudono acriticamente alle decisione dei colossi del fossile, sia l’atteggiamento, a dir poco tiepido, manifestato da realtà politiche che affermano di sentirsi vicine alle mobilitazioni ecologiste.
In conclusione, quelle che vanno sviluppate sono le alternative energetiche ai combustibili fossili.
I combustibili fossili non hanno futuro, lo dice ormai da decenni la comunità scientifica. E continuerà a sostenerlo la nostra mobilitazione, a Ravenna, in Italia, e in tutto il Pianeta.
Coordinamento ravennate “Per il Clima – Fuori dal Fossile”
Ravenna, 20 dicembre 2022