Per la Caritas quasi un decimo della popolazione è in povertà assoluta e un quarto a forte rischio. Pallone, Cgil: “Servono uno stato sociale universale e strumenti di sostegno al reddito adeguati”
Foto: Indonesia, la mano di un lavoratore in un cantiere navale. Foto di AdamCohn da flickr
In prevalenza vivono al Sud, ma si trovano anche nelle regioni settentrionali. Vivono in case in affitto, hanno bassi titoli di studio, in tanti e tante hanno salari bassi. Molti, troppi sono bambini e bambine. Sono i poveri assoluti del nostro Paese. E sono aumentati nonostante il Reddito di cittadinanza abbia evitato che un altro milione di cittadini e cittadine sprofondasse nella miseria.
È il racconto di un’Italia ammalata di diseguaglianze, che si ereditano e approfondiscono. E il merito o la mancanza di esso non c’entra proprio nulla. C’entrano le condizioni economiche e sociali di una società che tardi si è assunta la responsabilità di “entrare in Europa” introducendo strumenti di contrasto a un fenomeno che ormai coinvolge un decimo della popolazione, e che oggi si vorrebbero cancellare. Invece da almeno un ventennio è stata adottata una strategia di tagli allo stato sociale, che dovrebbe essere lo strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta dal Paese. La fotografia l’ha scattata la Caritas che in occasione della giornata internazionale di lotta alla povertà, lo scorso 17 ottobre, ha diffuso il suo ventunesimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale.
I numeri sono sconcertanti, dice il Rapporto: “Le famiglie in povertà assoluta risultano un milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In riferimento all’età, i livelli di povertà continuano a essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori (quasi 1,4 milioni bambini e i ragazzi poveri), all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 anni e al 5,3% per gli over 65”.
Tra le diseguaglianze che si approfondiscono, poi, ci sono anche quelle territoriali: “L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). Non bastasse, ai poveri assoluti vanno aggiunti 15 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale. Insomma, un quarto dell’intera popolazione in condizione di grande fragilità. Lo dicevamo: sono soprattutto minori, anziani e migranti, servono misure forti e strutturali.
Tante sono le facce della povertà. Ne esistono due, tra quelle individuate dalla Caritas, che in questi giorni fanno riflettere. “Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. Prima di tutto nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea, oltre la metà arriva a un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea”.
Insomma, per chi è meno istruito è più facile cadere in povertà. Contemporaneamente bimbi e ragazzi che nascono da genitori con bassa scolarizzazione sono “destinati” a un percorso d'istruzione accidentato e spesso anticipatamente interrotto. Altro che merito, la Costituzione dice tutt’altro, basta rileggere l’articolo 3. Per Giordana Pallone coordinatrice Area Stato sociale e diritti della Cgil nazionale, per spezzare il circolo vizioso dell'ereditarietà della condizione "è necessario uno stato sociale forte pubblico e universale, capace di prendere in carico chi ha una situazione di fragilità e capace di rimuovere all’origine le cause che producono esclusione sociale. L’unico modo per farlo è rafforzare le infrastrutture sociali in ogni territorio, realizzare una fitta rete di servizi pubblici capaci di garantire interventi e prestazioni a tutta la popolazione”.
Ma ciò che più preoccupa gli estensori del rapporto è l’ereditarietà della povertà. I figli di genitori a bassa scolarizzazione “ereditano” l’insuccesso scolastico che determina povertà. I figli di lavoratori a bassa qualifica e basso salario, a loro volta, ereditano quella collocazione nel mondo del lavoro: “Più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio)".
Cosa fare lo si legge nei numeri e nei determinanti della povertà. Istruzione, lavoro dignitoso e stabile, strategie di inclusione sociale a cominciare dai servizi per l’infanzia. Ma occorre partire dal sostegno al reddito migliorando lo strumento che esiste, a cominciare dal renderlo esigibile alle famiglie più numerose e agli stranieri. Aggiunge Pallone “Sono preoccupanti le dichiarazioni programmatiche della presidente del Consiglio Giorgia Meloni in merito alle intenzioni di mettere mano al Reddito di cittadinanza. Oltre a essere preoccupanti denotano anche una scarsa conoscenza sia della misura che della povertà in Italia. Dire che il Paese continuerà a sostenere chi è in difficoltà e non è in condizione di lavorare, mentre chi è in condizione di lavorare deve andarci e non stare sul divano, significa non conoscere i dati dei percettori della misura e non conoscere né le condizioni di chi vive in povertà, che ha bisogni complessi e deve ricevere servizi e politiche adeguate, né del sistema produttivo".
"L’ultimo rapporto di Anpal - prosegue - dice che a giugno delle oltre due milioni e mezzo di persone che percepiscono il RdC solo 900mila sono avviabili ai centri per l’impiego in condizione di essere occupate. Ed è bene ricordare che quasi il 20% di questi è già occupato, quindi lavora ma è povero. La questione non è introdurre misure vessatorie per chi percepisce il sostegno al reddito e non lavora. Occorrono possibilità di lavoro dignitoso, che siano attivati percorsi di formazione e di inclusione lavorativa anche per questa popolazione, che per i due terzi è disoccupata da più di tre anni e per altri due terzi ha un livello di istruzione fermo alla scuola media inferiore. Insomma, la retorica della Meloni non si fonda su nessun dato disponibile”.