Il risultato del plebiscito referendario lascia al Paese la costituzione varata dalla dittatura golpista. La vittoria del fronte del rifiuto ha fermato un inedito processo di cambiamento politico iniziato nel 2018. Le prossime mosse del governo e del parlamento faranno capire se siamo di fronte a una nuova normalizzazione
Il risultato del plebiscito cileno ha riportato il Paese all’eredità della dittatura golpista dei militari guidati dal generale Pinochet. La vittoria del fronte del Rechazo (rifiuto) ha fermato il processo di cambiamento politico scoppiato con le rivolte studentesche del 2018. Si è così interrotto il processo di cambiamento spinto dal basso, dalla società civile contro l’establishment e i partiti tradizionali, che ha visto il protagonismo degli studenti, dei giovani, delle donne e dei sindacati, e la sua saldatura con le rivendicazioni delle popolazioni indigene.
L’estallido, l’esplosione della protesta popolare ha obbligato la destra e il governo di Piñera ad accettare il processo costituente, per poi dimettersi e consentire la vittoria della coalizione che ha saputo raccogliere il voto dei movimenti sociali, studenteschi, ambientalisti, dei diritti civili, che ha portato il giovane Gabriel Boric (ex-leader studentesco, militante comunista) a essere il nuovo presidente cileno. Con il voto di ieri il Cile deve invece ripartire dalla costituzione emanata dalla dittatura militare golpista del generale Pinochet nel 1980.
Circa dodici milioni di cileni hanno espresso il proprio voto rifiutando o approvando il nuovo testo costituzionale redatto dall’Assemblea costituente: il 72% lo ha rifiutato (rechazo), il 38% lo ha approvato (apruebo). Un risultato che spinge a chiedersi come sia stato possibile che nel plebiscito dell’ottobre del 2020 il 78% dei cileni avesse espresso un voto favorevole alla modifica della costituzione pinochetista mentre. a distanza di due anni, poco più di un terzo dei votanti ha confermato questa volontà, negando di fatto il lavoro dell’assemblea costituente e l'inedito protagonismo delle forze sociali.
Dalla stesura finale del testo approvato e oggetto del plebiscito, in effetti, le prime reazioni misero subito in evidenza il rischio di una forte divisione nel Paese, e non la possibilità di un nuovo patto di convivenza nazionale. Le proposte incluse nella proposta di nuova costituzione prevedevano, tra l'altro, il pieno riconoscimento delle rivendicazioni dei popoli indigeni. Questo avrebbe trasformato il Cile in una repubblica plurinazionale, come già avvenuto in Bolivia, dove i popoli indigeni sono quasi il 50% della popolazione. In Cile rappresentano poco più del 10%, ma nel Paese è ancora aperta la ferita tra il popolo mapuche e la nazione cilena. Un altro elemento rifiutato dai poteri consolidati è il decentramento o regionalizzazione dei poteri che prevedeva la sostituzione del Senato con una Camera delle regioni. In Cile, come in molti paesi latinoamericani, tutto si decide nella capitale e le regioni sono senza poteri, o con deleghe ma senza risorse.
La campagna mediatica contro il nuovo testo costituzionale ha usato ogni mezzo, comprese disinformazione e falsità, per spaventare l’elettorato. Ma i cileni sono anche andati al voto con la consapevolezza che, nel caso avesse vinto il rifiuto, l'accordo stretto tra governo e opposizione avrebbe permesso ai partiti presenti in parlamento di riprendersi il mandato politico per riformare la costituzione.
Così è avvenuto e così gli eletti si sono ripresi la scena, sperando che la piazza e la protesta popolare, e il governo di sinistra prodotto della precedente stagione, accettino la sconfitta. I prossimi giorni e le prossime mosse dell'esecutivo e del parlamento ci faranno capire se siamo di fronte a una nuova normalizzazione o se il Cile riprenderà a essere un laboratorio sociale e di novità degli ultimi anni. Nel frattempo, si riparte dall’eredità della dittatura.
Sergio Bassoli, Area politiche europee e internazionali Cgil