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Il prelievo colpisce i guadagni abnormi realizzati dalle imprese che hanno acquistato materie prime ben prima che scoppiasse la guerra in Ucraina e ora le rivendono a prezzi non giustificabili semplicemente con la la legge della domanda e dell'offerta. Ma finora solo il poche hanno pagato e sono fioccati i ricorsi

 Foto: Foto da Pixaby.com

Tassare gli extraprofitti per redistribuire eccedenze di guadagno realizzate in una situazione eccezionale, cioè la guerra in Ucraina, che premia alcune aziende a discapito di famiglie e imprese. Tecnicamente, secondo quanto si legge nel dizionario Treccani, l’extraprofitto è “l’eccedenza sul profitto normale del profitto effettivamente conseguito dalle imprese non marginali”. 

La base “morale” di una tassa sugli extraprofitti risiede nel fatto che le società energetiche hanno realizzato grazie a petrolio e gas utili enormi (secondo alcune stime fornite da Europa Verde, solo per l’Eni, che è di proprietà pubblica, si parla di 20 miliardi di euro tra 2021 e 2022) non solo per l’aumento della domanda rispetto all’offerta come conseguenza della guerra in Ucraina che ha fatto salire alle stelle il prezzo del gas, ma per il fatto che le compagnie energetiche stanno vendendo a prezzi salatissimi materie prime che erano state acquistate ben prima dell’invasione dell’Ucraina ed è questo a produrre guadagni abnormi. Si tratta di uno di quei casi da manuale in cui il mercato lasciato a sé stesso è tutt’altro che virtuoso.

Per questo il 13 giugno l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera) nel “Monitoraggio dei contratti di approvvigionamento del gas naturale” “ritiene opportuno che una parte del gettito derivante dai provvedimenti fiscali a carico delle aziende del settore sia destinato ai clienti finali che ne hanno sostenuto l’onere”. La base imponibile su cui viene calcolata la tassa sugli extraprofitti così come normata nel Decreto aiuti bis viene calcolata confrontando nei bilanci le operazioni attive e passive realizzate dal 1° ottobre 2021 al 30 aprile 2022, con quelle dello stesso periodo tra il 2020 e il 2021. Il pagamento doveva essere in due tranche: la prima entro il 30 giugno (il 40%) e il resto il 30 novembre.

Tutto bene dunque? Affatto, perché quasi tutte le aziende non stanno effettuando i pagamenti e quindi rispetto ai 10,5 miliardi previsti – che dovevano appunto servire ad alleviare le bollette – ne sono arrivati un decimo circa. La motivazione cui si appigliano è che la tassa sarebbe anticostituzionale e hanno presentato ricorsi a pioggia all’Autorità per l’energia e al Tar. Tra le aziende ricorrenti ci sono Kuwait Petroleum (Q8), Ip (che però ha pagato l'acconto), Esso e Engycalor. Non hanno presentato ricorso i colossi di Stato Eni ed Enel, al contrario di Acea Energia Spa, la municipalizzata di Roma. 

Oggi (31 agosto) rappresenta una data cruciale per capire il destino della tassa: scadono infatti i termini per il “ravvedimento” per il pagamento dell’acconto (con una penale del 15% che sale al 60 se il pagamento verrà effettuato successivamente), mentre la pronuncia del Tar in merito ai ricorsi è prevista per l’8 novembre. Se il tribunale amministrativo dovesse sospendere l'efficacia del provvedimento rimandandolo alla Consulta, salterebbe il saldo di novembre e considerando che il pronunciamento della Corte non arriverà prima di un anno e mezzo, risulterà molto difficile finanziare su questa tassa ipotesi di “restituzione” di risorse a famiglie e imprese. E sarebbe un peccato perché se fosse applicata su scala continentale una misura di questo tipo, oltre a liberare 200 miliardi di euro di risorse, rappresenterebbe una spinta forte alla transizione ecologica.