L'ordine del giorno approvato alla Camera e accolto dal governo impegna l'esecutivo ad aumentare le spese militari al 2 per cento del Pil entro il 2028 (e non più il 2024). Ma le risorse aggiuntive andranno sottratte ad altre voci di bilancio. Marra, Cgil: “Dopo due anni di pandemia, la nostra risposta alla guerra è togliere risorse alla sanità per darle ai fabbricanti di armi?”
Passare da 25,8 miliardi a circa 38 miliardi all’anno, cioè da 68 milioni al giorno ad almeno 104 milioni. Dovrebbe crescere con questi ritmi la spesa militare italiana da qui al 2028 (e non più il 2024 come previsto inizialmente), stando alle cifre fornite dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, dopo l’accoglimento in commissione Esteri del Senato dell'ordine del giorno collegato al cosiddetto decreto Ucraina, già votato in precedenza a larghissima maggioranza dalla Camera.
Un impegno per l’esecutivo ad aumentare le risorse per la Difesa fino al 2 per cento del prodotto interno lordo (oggi siamo all’1,4) che ha messo in seria difficoltà la maggioranza di governo, politicamente divisa su questo punto, ma sul quale il premier Draghi ha ottenuto il sostegno del presidente della Repubblica Mattarella. Aumento che però ha scatenato la disapprovazione di Papa Francesco: “Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi, come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!”, ha dichiarato il Pontefice.
L’accoglimento dell’ordine del giorno è stato dettato da alcune considerazione. Le citiamo testualmente: “L’invasione russa dell’Ucraina sta dimostrando la necessità ancora più acuta che i Paesi europei destinino più risorse alle loro difese; in diversi Stati dell’Unione e dell’Alleanza Atlantica sono già stati annunciati sensibili incrementi delle spese per la difesa; la Germania ha rivelato di essere intenzionata a elevare al livello dei 100 miliardi di euro annui il proprio bilancio per la difesa, portandolo di fatto al 2 per cento del Pil, da tempo raccomandato come obiettivo dall’Alleanza Atlantica”. Morale: l’Italia non può essere da meno, deve dare un segnale e dunque adeguarsi. Ma attenzione, non è un obbligo assunto a livello internazionale, come è stato sostenuto in questi giorni per motivare la decisione.
“L’indicazione di spesa di almeno il 2 per cento del Pil in ambito Nato deriva da un accordo informale del 2006 dei ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza – spiega Francesco Vignarca, coordinatore campagne Rete italiana pace e disarmo -, poi confermato e rilanciato al vertice dei capi di Stato e di governo del 2014 in Galles, obiettivo da raggiungere entro il 2024. Lì si è anche indicata una quota del 20 per cento di questa spesa da destinarsi a investimenti in nuovi sistemi d’arma”. Quindi non un impegno vincolante ma una dichiarazione di intenti, a cui i Paesi dell’Alleanza Atlantica possono attenersi. E che il Parlamento italiano non ha mai formalmente ratificato con una legge che impegni il bilancio dello Stato.
“La scelta di aumentare la spesa per la Difesa andava affrontata a tempo debito, nel 2015 – afferma Salvatore Marra, coordinatore area delle Politiche europee e internazionali Cgil -. Bisognava alzare la voce allora, quando la Nato ci ha chiesto questo impegno: perché stupirsi adesso di un voto in Parlamento? Se c’è la guerra alle porte dell’Europa, la nostra risposta qual è, il riarmo? La nostra risposta, dopo due anni di pandemia, è togliere risorse alla sanità per darle ai fabbricanti di armi?”.
Non c’è un trattato, non c’è un obbligo, quindi, ma solo voler sfruttare una situazione drammatica ed emergenziale come il conflitto in Ucraina per portare a casa un obiettivo che è irraggiungibile, per stessa ammissione del ministro. “Irraggiungibile perché al di là delle dichiarazioni di intenti e degli impegni, le risorse vanno trovate – aggiunge Vignarca -. È vero che l’Italia può andare un po’ più a debito, che può sforare anche per via del Pnrr, ma non più di tanto”.
Sia ben chiaro: le risorse aggiuntive per la Difesa, che potrebbero già essere previste nel prossimo Def, il Documento di economia e finanza in arrivo a inizio aprile, andrebbero comunque sottratte a qualche altra voce di bilancio. Sì, ma a quale? Alla sanità, che la crisi pandemica ci ha insegnato andrebbe potenziata? Alle pensioni, che attendono una riforma messa in stand by nella speranza di tempi migliori?
“Per la sanità pubblica dopo il Covid prevediamo di spendere il 7 per cento in più fino al 2024, mentre per la Difesa la crescita sarebbe del 47 per cento – continua Vignarca -. Con la differenza che i soldi stanziati nel primo caso servono per curare 60 milioni di persone. Per noi è sbagliato in termini tecnici e politici. Usare lo spauracchio russo per giustificare un aumento della spesa militare non ha nessun fondamento di carattere strategico. E poi è sbagliato parlare di percentuale sul Pil, un parametro che comprende anche la produzione di ricchezza privata, ed è soggetto a fluttuazioni indipendenti dalle decisioni fiscali”.
I dati dell’ultimo report del Sipri di Stoccolma, il più prestigioso istituto internazionale di ricerca sulla pace, parlano chiaro: nel 2020 la Nato ha investito circa 1.103 miliardi di dollari, pari al 56 per cento della spesa militare globale, la Russia solo 67 miliardi. L’Europa, considerata in blocco, 233 miliardi, il 12 per cento di quanto viene speso in tutto il mondo. Numeri che sono in crescita da anni praticamente dappertutto: nel 2020 è stato registrato un incremento complessivo del 2,6 per cento in termini reali (più 9,3 per cento nell’ultimo decennio) per una cifra pari a 1.981 miliardi di dollari, con Stati Uniti, Cina, India, Russia e Regno Unito in cima alla classifica mondiale. E l’Italia? Anche da noi l’aumento è una costante: più 3,4 per cento nel 2022 rispetto all’anno precedente, più 11,7 nel 2021, più 19,6 nel 2020.
“Sono diversi anni che si parla di una Difesa europea, del fatto che nell’Unione non ha senso che esistano 27 eserciti e una replica di aeronautiche e marine militari – dice Marra della Cgil -. Ma allora, se si vuole costruire una Difesa comune e unificata, bisognerebbe per prima cosa razionalizzare la spesa, non aumentarla. Il secondo paradosso è la politica estera: è la più litigiosa nell’ambito Ue, quella sulla quale gli Stati membri non sono mai d’accordo, per la quale non abbiamo neppure un Commissario ad hoc. Come può funzionare un esercito europeo e chi lo controlla?”. Per il sindacalista la questione delle risorse non è secondaria: “Se la Germania ha deciso un aumento di 100 miliardi per la spesa militare come extrabudget, lo può fare anche l’Italia? A noi non risulta. Quindi, dove prenderemo i soldi? Dove taglieremo? Come la mettiamo con le regole fiscali europee, quelle sì che vanno rispettate? Per le armi possiamo fare debito senza incorrere nelle sanzioni della Commissione?”.
D’altra parte non è un segreto che l’Europa stia alimentando una nuova corsa agli armamenti, imboccando un percorso per affermarsi come potenza militare globale che va contro il proprio principio fondatore di promozione della pace. Dieci anni dopo il trattato di Lisbona (2009), che fornisce la base giuridica per creare una politica di sicurezza e difesa comune, l’Ue ha dato inizio a una nuova fase, creando linee di bilancio che avrebbero specificamente assegnato finanziamenti a progetti militari. Il Fondo europeo per la Difesa (European Defence Fund 2021-2027) ha un budget senza precedenti di 8 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo di sistemi militari, nuovi armamenti, miglioramento di quelli esistenti, integrando tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale e i sistemi senza pilota o autonomi.
Come testimonia in modo dettagliato il rapporto Enaat (European Network Against the Arms Trade) “i processi decisionali e i bilanci sono stati intercettati da aziende altamente lucrative che hanno sfruttato questi spazi politici per il proprio guadagno”. Non solo. Secondo gli autori del report “l’Ue sta consapevolmente finanziando aziende di produzione militare che sono coinvolte in pratiche altamente discutibili, che non rispettano gli standard sui diritti umani e lo stato di diritto, due dei valori fondamentali dell’Unione”.
È il business delle armi, dove a guadagnarci sono soprattutto otto grandi aziende di Italia, Spagna, Francia, Svezia e Germania, le principali beneficiarie dei due programmi varati finora. “Perché non imponiamo a queste aziende un contributo di solidarietà per i danni provocati dalla guerra, come è stato fatto con quelle energetiche? – chiede Marra - I titoli in Borsa delle multinazionali delle armi sono schizzati in alto, stanno ottenendo profitti mostruosi, sarebbe il caso che una parte venga usata per la società”.