La legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto nella Carta costituzionale il principio del pareggio di bilancio (“equilibrio tra le entrate e le spese”), è il frutto del peggior revisionismo costituzionale. Approvata praticamente all’unanimità da un Parlamento sotto pressione, in tempi rapidissimi.
Approvata in tempi rapidissimi e senza un’adeguata discussione, con una sinistra subalterna ad un governo tecnico che assumeva il rigore come unico parametro politico di giudizio, ha rappresentato una risposta alla crisi economica di natura puramente ideologica, collocando in Costituzione le particolari politiche di stampo neoliberista.
Politiche rilevatesi poi fallimentari, che la stessa classe dirigente del nostro Paese non ha potuto perseguire. Infatti, da che è stata approvata la modifica al testo della Costituzione ci si è costantemente appigliati alla possibilità di derogare
i vincoli di bilancio nei casi di “eventi eccezionali”. Un monumento alla miopia di una classe dirigente incapace di perseguire gli obiettivi che essa stessa si impone.
Ma ciò che appare più grave della riforma è che essa rappresenta una rottura con la storia del costituzionalismo pluralista e democratico del nostro Paese. Come si può pensare, infatti, di escludere dall’ordine costituzionale ogni opzione diversa da quella neoliberista? Verrebbe da dire che la scelta compiuta nel 2012 sia stata espressione di un’infelice visione neo-totalitaria.
Accecati dall’ideologia che impone di limitare, in ogni caso, la spesa pubblica, si è dimenticato l’obbligo della Repubblica di garantire i diritti fondamentali delle persone. Ed è qui il vulnus costituzionale più grande. Non può essere data, infatti, una riforma della parte economica della nostra Costituzione che stravolga i diritti la cui tutela è assicurata come “inviolabile” nella prima parte del testo (articolo 2). Tali diritti – lo ha scritto a chiare lettere anche di recente la Corte costituzionale – devono rappresentare un limite invalicabile, tutelato anche a livello internazionale. Pertanto deve essere “la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (così la sentenza n. 275 del 2016).
Il nostro spigliato revisore ha maldestramente tentato di giustificare questa inversione delle priorità costituzionali (prima la stabilità, poi i diritti incomprimibili) in base ad un inesistente obbligo europeo. Il Fiscal compact in realtà si limita – e già non è poco – ad imporre vincoli di natura permanente, ma non obbliga ad iscriverli in Costituzione. La scelta dunque di “costituzionalizzare” il principio del pareggio di bilancio ricade pienamente nella responsabilità politica del Parlamento italiano. Ciò comporta il gravissimo effetto di rendere immodificabili le politiche del rigore anche nell’auspicabile ipotesi di un ravvedimento a livello europeo.
Sono passati sei anni da questa improvvida riforma e il suo fallimento è ormai evidente. Un Parlamento responsabile ne prenderebbe atto e rilancerebbe le ragioni del costituzionalismo così disinvoltamente disattese. In particolare, dovrebbe essere interesse di tutte le forze politiche e sociali che si ispirano alla Costituzione proporre una controriforma che riaffermi le giuste priorità: prima i diritti fondamentali delle persone, poi le ragioni legate agli equilibri delle finanze pubbliche. Dovrebbero essere le rappresentanze politiche e sociali di sinistra a sollecitare il cambiamento, ma così non è. Sono palpabili e, francamente, incomprensibili i silenzi e gli imbarazzi di partiti e sindacati, più attenti a non turbare i propri equilibri interni che non ad affrontare la crisi sociale e culturale che rischia di travolgerli. E allora non rimane che affidarsi al rappresentato, nella speranza che sappia parlare al rappresentante oggi troppo impegnato ad abbaiare alla luna.
Una legge costituzionale di iniziativa popolare è stata elaborata dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale (proposta presentata assieme al quella sulla legge elettorale e in accordo con quella sulla scuola). Essa si propone non solo di eliminare le regole contabili definite nella sciagurata revisione del 2012, ma anche di individuare il limite delle politiche di spesa, che devono in ogni caso garantire il “rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. È necessario raccogliere 50.000 firme nel vuoto della comunicazione e in assenza di mezzi.
Una legge costituzionale di iniziativa popolare è un azzardo, ma anche un atto estremo di responsabilità. Ci vuole in effetti coraggio per proporre al prossimo Parlamento di invertire la rotta, provando a riparare i guasti prodotti dal revisionismo costituzionale. A quel punto però sarà anche assai difficile voltarsi da un’altra parte per tutti coloro che non si sono ancora arresi al dominio degli interessi costituiti. Se c’è vita a sinistra è ora di battere un colpo.
Gaetano Azzariti
(pubblicato su “il Manifesto” del 22.2.2018)