«Sde Teiman non è un carcere, è la nostra vendetta». Parla un medico israeliano entrato nella Abu Ghraib di Netanyahu la base-prigione del Neghev in cui vengono rinchiusi senza un’imputazione i palestinesi presi a Gaza. Abusati e torturati, bendati, feriti senza cure e legati al letto
ISRAELE-PALESTINA. Parla un medico israeliano entrato nella base-prigione di Israele nel Neghev, in cui i palestinesi sono ammanettati al letto per mesi
Detenuti palestinesi dopo essere stati rilasciati dall'esercito israeliano, a Deir Al Balah - foto Getty Images
Torture, abusi e violenze di ogni genere a danno di centinaia di detenuti palestinesi di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre, anche quelli gravemente feriti e ammalati. Di quanto accade nel centro di detenzione di Sde Teiman, la Abu Ghraib di Israele, nei pressi di Bersheeva nel Neghev, si parla da mesi. Solo qualche settimana fa, grazie alla denuncia dei media internazionali e alla petizione presentata alla Corte suprema dall’Associazione israeliana per i diritti umani, le autorità hanno deciso di trasferire gran parte dei palestinesi tenuti prigionieri a Sde Teiman. Ne rimangono altri duecento e le loro condizioni non sono migliorate. Abbiamo raccolto la testimonianza del dottor F.K. che ha visitato Sde Teiman. Ci ha chiesto di non rivelare la sua identità.
Quante volte sei stato a Sde Teiman?
Solo una. Sono un chirurgo e mi hanno chiamato a proposito di un detenuto palestinese in gravi condizioni che pochi giorni prima era stato ricoverato nell’ospedale pubblico in cui lavoro. Stava molto male e volevano un parere. Quella persona avrebbe dovuto rimanere ricoverato nella struttura ospedaliera e non essere rimandato subito a Sde Teiman. So di prigionieri (palestinesi) che dopo essere stati operati negli ospedali non sono stati tenuti in terapia intensiva o in osservazione, ma portati subito nei centri di detenzione e nelle prigioni in condizioni instabili.
Cos’è Sde Teiman?
Fondamentalmente è un’enorme base militare con un’area di detenzione divisa in due parti. Una è una sorta di ospedale da campo, dove sono stato io. Nell’altra ci sono le tende con i prigionieri di Gaza. Tutto appare molto precario. All’ingresso sono ammassati i materiali sanitari. Gli ammalati si trovano sotto una tensostruttura, uno scheletro di metallo coperto da un tendone. Quindi sono esposti alle condizioni esterne, con temperature che
di notte scendono notevolmente. Sono stato accolto da un medico e due infermiere e mi è stato subito chiesto di non fare il mio nome con nessuno e di non fare il nome di altri; pertanto, si lavora sotto uno stretto animato. Poi mi hanno fatto indossare un camice e una mascherina. Ho trovato due file di pazienti, in totale una quindicina, forse venti. Ho notato subito che erano tutti legati, mano e gamba separatamente, ai bordi del letto. Erano bendati, quasi nudi e con il pannolone. Costretti a rimanere a letto, sempre sdraiati sulla schiena, non vanno in bagno o non vengono portati ai bagni.
Cosa ti hanno detto i medici che lavorano lì?
Quelli con cui ho interagito, anche nei giorni seguenti su Whatsapp, non sono chirurghi o da terapia intensiva. Non sanno come intervenire su pazienti che, forse non tutti ma sicuramente la maggior parte, sono feriti da arma da fuoco, al torace e all’addome. Fondamentalmente i medici di Sde Teiman devono essere guidati da specialisti, ecco perché mi hanno chiesto di visitare anche altri pazienti, oltre a quello per cui ero stato convocato.
I detenuti hanno cercato di comunicare con te?
No. C’era sempre un soldato con me che parlava arabo e mi faceva da traduttore. Le mie domande erano chiaramente limitate ad aspetti di carattere medico. Ma non credo che avrebbero voluto parlarmi, in quel momento io rappresentavo la parte nemica.
Alcuni dei palestinesi liberati dopo mesi di detenzione a Sde Teiman, tornati a Gaza hanno denunciato di essere stati torturati e di non aver ricevuto cure adeguate. L’ultimo in ordine di tempo è stato il direttore dello Shifa Hospital di Gaza city, Mohammed Abu Salmiya. I centri per i diritti umani, anche israeliani, hanno fatto altrettanto. Puoi confermare queste accuse?
Non sono stato testimone diretto di violenze o di torture sui pazienti. Però, come medico e come persona, penso che se un essere umano resta per giorni in un posto, esposto all’ambiente esterno spesso molto freddo di notte, non può muoversi perché è ammanettato al letto e bendato, non capisce la lingua che si parla intorno a lui, ebbene questa per me è una forma di tortura. Senza dimenticare che un medico ha un codice etico e professionale al quale è vincolato. Qui invece abbiamo il ministero della sanità e l’esercito che impongono che i pazienti siano bendati 24 ore su 24. Siamo di fronte a forme di tortura, anche psicologiche.
Quindi la denuncia di Abu Salmiya è credibile?
La ritengo verosimile. A mio avviso per comprendere il caso di Sde Teiman il discorso va allargato alla società israeliana e all’atteggiamento di certi medici in Israele nei quali scatta una sorta di meccanismo di difesa, come lo chiamo io, con il quale giustificano certe cose che dal mio punto di vista non sono distanti dalla violenza e che vengono perpetrate in un contesto di terapia. Faccio l’esempio di un palestinese ferito portato al mio ospedale nei giorni successivi al 7 ottobre. Su di lui è stata eseguita una procedura estremamente dolorosa, una incisione e un drenaggio, senza aver ottenuto da lui un consenso informato, senza l’uso di anestesia adeguata, senza neppure un analgesico locale. Quello è stato uno dei momenti in cui ho capito che noi facciamo cose del genere (sui palestinesi) sebbene la legge le definisca forme di violenza fisica. Se non procedi con le terapie antidolorifiche previste, allora è vendetta. C’è un problema grosso nella società israeliana. Il palestinese, soprattutto il palestinese di Gaza, è completamente disumanizzato. E fargli determinate cose è considerato lecito.
Tornando alla tua visita a Sde Teiman, cosa ti dicevano i medici che lavorano stabilmente nel centro di detenzione?
Sono in una situazione particolare. Ho colto un senso di frustrazione in loro che, forse, vorrebbero curare i detenuti in maniera più adeguata. Ma conta il contesto. Lì siamo in una tenda nel deserto, con pazienti legati e ammanettati, non hai strumenti se non quelli per fare una lastra, un elettrocardiogramma o qualche esame del sangue. Quando hai dei feriti da arma da fuoco uno degli esami più importanti è la Tac, se hanno infezioni allora hai bisogno di un laboratorio di microbiologia. Tutte queste cose non le hanno a Sde Teiman. Anche se i pazienti non sono stabili gli esami più urgenti sono richiesti con ritardo. L’utilizzo della medicina come forma di violenza e di vendetta che deve farci riflettere. Non puoi tenerli in vita all’unico scopo di permettere che siano interrogati.
A distanza di tempo, cosa ti viene da pensare della tua visita a Sde Teiman?
Che è tutto così surreale. È uno paradossi del vivere qui. Sde Teiman non è come una infermeria da campo dell’esercito americano sperduta nel deserto dell’Afghanistan, non è un posto che si raggiunge dopo ore ed ore di viaggio del deserto. Io ho viaggiato in auto per una quarantina di minuti, ho anche avuto modo di mangiare uno spuntino ad una stazione di servizio, e in questo poco tempo sono giunto in un posto che è scollegato e fuori dal mondo, in cui non si pratica una medicina adeguata e moderna perché i pazienti sono di Gaza, e che è abbastanza vicino al mio ospedale in cui invece si pratica una medicina avanzata. Tutto questo, pensi, non ha nessun senso. Poi ci rifletti su e capisci che ha un senso perché rientra in un quadro in cui il ministro della salute proclama che gli ospedali pubblici non cureranno mai i «terroristi di Gaza», in cui è evidente che c’è una volontà di compiere una vendetta. Quel breve viaggio dal mio ospedale a Sde Teiman mi ha detto tanto della nostra società