Primo sì all’autonomia differenziata che spacca l’Italia. La maggioranza prova a rassicurare sulla tenuta unitaria del paese, ma è impossibile senza risorse. E al momento del voto la Lega rivendica con la bandiera dei secessionisti veneti. L’opposizione punta al referendum
STATE SERENISSIMI. La coincidenza del trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi con il primo voto favorevole all’autonomia differenziata incornicia la destra italiana. Pulsioni secessioniste ed egoistico-nordiste del genere padroni in casa […]
Matteo Salvini e Giorgia Meloni - LaPresse
La coincidenza del trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi con il primo voto favorevole all’autonomia differenziata incornicia la destra italiana. Pulsioni secessioniste ed egoistico-nordiste del genere padroni in casa nostra c’erano anche allora, trent’anni fa. E anche allora la Lega (Nord) di Bossi non legava bene con i patrioti post missini di Fini (tra i quali una giovane Meloni, ammiratrice dichiarata del pochissimo federalista Mussolini). Berlusconi inventò una doppia alleanza, diversa anche nei simboli al Nord e al Sud. Trovata ottima per conquistare il potere ma zoppicante per governare, eppure capace in forme più o meno coerenti di durare un ventennio.
Tra la retorica nazionalista e l’indipendentismo padano l’intesa non è mai stata e mai potrà essere strategica, fondata su una razionalità politica o un programma di riforme realizzabili. Ma è stata e continua a essere un’intesa consolidata da convinzioni comuni: l’egoismo dei ricchi, il merito come privilegio dei favoriti, la solidarietà come carità, le tasse come un balzello, il denaro come misura del valore di tutto, il potere pubblico come un’oppressione. Nell’insieme un’ideologia reazionaria che nel regionalismo differenziato trova adesso una forma nuova. Non si chiama più secessione o devoluzione ma è la stessa cosa.
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Questa condivisione ideologica di fondo delle due destre al governo – Forza Italia non ha avuto alcun ruolo in questa partita – giustifica e spiega la confezione pasticciata del disegno di legge approvato ieri. Una norma ordinaria che si vorrebbe sovraordinata, cosa impossibile, alle norme di pari grado necessarie a recepire gli accordi tra stato e regioni. Una riforma che
fa dei Livelli essenziali di prestazione un’etichetta: indispensabile, si dice, eppure vuota (di finanziamenti) e quindi strumento non di uguaglianza ma di ulteriori sperequazioni. Un cambio della struttura dello stato affidato, nei suoi passaggi concreti, per intero al governo, con le aule parlamentari ridotte a quinte per la conferenza con l’Africa o i concerti di Morandi. Certamente non sarà, se approvata definitivamente, una riforma che migliorerà l’efficienza dello stato (frammentato), ma è già una riforma che descrive bene l’avventurismo e il darwinismo sociale di una destra che gioca con le istituzioni come con le pistole a capodanno.
Anche qui trionfa l’autoritarismo di chi dalla poltrona di comando firmerà come fossero contratti privati le intese con le regioni privilegiate. Non c’è dunque alcuna contraddizione con l’altra riforma-bandiera di questa maggioranza, il premierato, dove parimenti tutta l’architettura della proposta è incoerente o in alto mare, ma l’ideologia dell’elezione diretta del (della) leader resiste inattaccabile. Se l’elemento di scambio tra la riforma costituzionale cara a Meloni e quella “federale” sbandierata da Salvini è evidente, tanto da essere sincronizzato con la campagna elettorale per le europee, resta il fatto che si tratta di uno scambio facile tra due destre che agiscono la loro competizione su un terreno ideologico comune. Non dovrebbe dimenticarlo chi adesso si illude che le tensioni nella maggioranza possano arrestare questa corsa e questi scambi. La sfida tra Fratelli d’Italia e Lega – dove i primi sono i vincitori annunciati – resta a somma zero per le opposizioni. Vale per le riforme e rischia di valere anche per le elezioni