GERMANIA. I Grünen a congresso nello scorso fine settimana sono in declino e al cambio di pelle. Dai movimenti di base all’imperativo «realista» di stare al governo comunque. E la Germania va a destra
Con il motto più stupido che si potesse immaginare i Grünen sono andati a congresso nel passato fine settimana: «La nostra ideologia si chiama realtà». Al vicecancelliere verde Robert Habeck, presunto autore del motto e provetto scalatore di specchi, converrebbe ricordare che quando della realtà si fa un’ideologia, proprio allora la si diserta. Quando il “realismo” diventa feticcio si distacca irrimediabilmente dalla vita concreta.
Motto congressuale 2023 dei Grünen
«La nostra ideologia si chiama realtà»
Fin dalle loro origini i Verdi tedeschi si sono portati dietro la disputa tra fondamentalisti (in origine al limite di un purismo fanatico) e realisti (in lunga transizione dal buon senso all’opportunismo). Ma ormai, con l’affermazione definitiva di questi ultimi, di quel conflitto non rimane che una pallida messa in scena utilizzata per la difesa dei molti compromessi ingoiati per confermarsi nel governo con Spd e Fdp, delle rinunce e spregiudicate correzioni di rotta attuate dal partito.
Ma più che di un “realismo” imposto dagli alleati quello intrapreso dai Grünen assomiglia al compimento di un vero e proprio cambio di pelle, di pensiero e di funzione politica. Tanto che la domanda: chi sono i Verdi e a che cosa servono ancora? non è poi così peregrina.
La realtà, quella non ideologica, dice che i Grünen sono un partito in declino, che molti elettori lo stanno abbandonando (le ultime tornate elettorali sono andate assai male e i sondaggi non virano al sereno) e la base è in subbuglio, che ben poco entusiasmo accompagna l’attività di un partito che non ha saputo affrontare adeguatamente gli eventi che ne investivano strategie e principi politici: le guerre, la crisi energetica e le migrazioni.
La guerra in Ucraina ha spinto, perfino con qualche entusiasmo e un eccesso di retorica, ad avallare l’inquietante riarmo della Germania e a dismettere ogni preoccupazione per l’allargamento del conflitto, assecondando fino in fondo il massimalismo di Zelensky. Quanto all’originario credo pacifista del partito, i Verdi se ne erano disfatti già da un pezzo.
La crisi energetica ha poi determinato una serie di deroghe a favore dei combustibili fossili e del nucleare e, soprattutto, ha visto i vertici verdi schierarsi contro l’imponente movimento ecologista che si batteva per impedire l’allargamento (ritenuto peraltro da diversi esperti inutile per il fabbisogno energetico del paese) della già immensa miniera di lignite di Lützerath.
L’allineamento alle ipotesi di inasprimento del diritto di asilo e di trasferimento in paesi terzi dei migranti in attesa di esame, l’adesione alla spudorata finzione dei “paesi sicuri” ha completamente appiattito i Grünen sulle politiche di chiusura e respingimento che dominano la competizione dei grandi partiti popolari tra loro e con l’estrema destra.
L’ideologia, riassunta nel ridicolo slogan “umanità e ordine”, dice che solo così si sottrae a quest’ultima terreno e consenso. La realtà mostra invece che l’onda nera cresce indisturbata e che lo sdoganamento, sia pure in termini moderati e retoricamente democratici, dei suoi temi e dei suoi allarmi, altro non fa che istituire una normalità che la favorisce.
Del resto quel che i Verdi dicono di aver ottenuto scendendo a molteplici compromessi (come la promessa di un’uscita anticipata dall’energia fossile) in generale non convince.
Ma quale era la “diversità” dei Verdi? Ciò che li rendeva alternativi agli altri partiti? Appetibili anche per una sinistra dispersa e senza più connotazioni di classe?
Non solo e non tanto il fatto di promuovere quella cruciale questione ambientale che a destra e a sinistra i fautori dello sviluppo quantitativo ignoravano o accantonavano. Ma il rapporto stretto con una vasta rete di movimenti e iniziative di base che non solo animavano le grandi campagne pacifiste ed ecologiste, ma costruivano anche, sulla base di una decisa sensibilità ecologica, percorsi, progetti, forme di vita e di impresa alternative ai modelli dominanti.
Proprio questa relazione si è, nel corso degli anni, prima indebolita e poi rotta politicamente, sia pur conservandosi a tratti per via clientelare. I vertici del partito respingono con crescente stizza interferenze e condizionamenti dal basso. E i dati elettorali testimoniano la conseguente disaffezione.
Oggi i vertici dei Grünen sbandierano un “realismo” che dovrebbe scongiurare il rischio di finire rinchiusi in una «nicchia», di interrompere la lunga marcia verso lo status di terzo grande partito popolare, traguardo ben più alla portata di un’Afd accreditata dai sondaggi al 20 per cento che non dei declinanti Grünen.
Ma la vera nicchia altro non è che quella «vocazione governativa» e autoreferenziale che pretende, contro ogni evidenza, di esercitare grazie all’arte del compromesso un’azione efficace contro il dilagare dell’estrema destra, pronta invece a profittare di ogni arretramento e debolezza del moderatismo per conquistarsi nuovo spazio.
Terrorizzati da un possibile ritorno alla grande coalizione tra Spd e Cdu-Csu, che li escluderebbe, i Verdi si cimentano, nell’illusione di catturare i cattivi umori popolari, in un realismo opportunista e subalterno alla impetuosa deriva a destra della Germania.
Conservarsi al governo, costi quel che costi, è l’imperativo della “realtà” in versione verde. Ma quanto più si affievolisce il radicamento in una società critica e insoddisfatta, tanto più difficile risulterà conservare la forza necessaria anche solo a mantenere la posizione