L’invasione via terra è al suo apice, dice Israele. I tank tagliano in due la Striscia e accerchiano Gaza City. Da Netanyahu il no anche a rifornire di benzina i generatori elettrici degli ospedali. Campi profughi di nuovo sotto le bombe, 195 morti a Jabaliya. L’Onu: «Rischio genocidio»
GAZA CITTÀ CHIUSA. Ancora bombe su Jabaliya, Beach camp, Bureij: colpite le scuole dell’Unrwa. Nel raid di martedì 195 uccisi, altri 120 dispersi
Un uomo soccorso nel campo di Bureij - Ap/Mohammed Dahman
«Questa era la mia casa. Non so cosa dire. Siamo senza difesa». Una donna indica un mucchio di macerie. Viveva con la famiglia nel campo profughi di Bureij, a sud di Gaza City, 46mila abitanti. Sono i campi rifugiati i più colpiti dall’aviazione israeliana negli ultimi giorni. A Jabaliya non c’è pace. Stanno ancora cercando i dispersi dell’attacco di martedì sera. Alla fine si è riusciti a fare un bilancio di quel raid, delle sei bombe sganciate su Jabaliya: 195 uccisi, 777 feriti e circa 120 dispersi, probabilmente morti. Lo dicevano ieri i soccorritori, civili a mani nude: non c’è più nessuno vivo sotto.
IERI È SUCCESSO ancora. Stesse scene, macerie rimosse a mani nude: «Le mie due sorelle sono sotto, con i figli. Siamo inutili. Non possiamo rimuovere tutto questo cemento. È troppo tardi, saranno morti ormai». È il racconto di un ragazzo ai giornalisti di al Jazeera, pressoché unica emittente che riesce a lavorare dalla Striscia, dove internet e rete telefonica si accendono e si spengono.
Gli uccisi a Jabaliya ieri erano almeno 29, decine i feriti. Tra le strutture prese di mira c’è una scuola dell’Unrwa che ospita migliaia di sfollati. Poche ore prima Israele aveva bombardato un’altra scuola dell’agenzia Onu per
i rifugiati nel campo di al-Shati: cinque uccisi. Da Beach Camp sono arrivate invece altre immagini, girate dal blogger palestinese Ahmed Hijazee: sulla scuola Unrwa che ospita migliaia di sfollati sono piovute munizioni che hanno sprigionato polvere bianca, mentre dall’alto ne cadeva altra, a grandi archi.
Immagini che hanno riportato alla mente il fosforo bianco usato nell’offensiva militare Piombo fuso, di sicuro lo hanno pensato le persone sul posto che hanno iniziato a gridare «fosforo, fosforo» tentando di coprirsi la bocca. Impossibile al momento dire se si trattasse dell’arma proibita, già utilizzata – secondo Amnesty International e Human Rights Watch – le scorse settimane a Gaza e nel sud del Libano.
L’OPERAZIONE israeliana è iniziata 27 giorni fa e ha provocato una carneficina: 32mila i palestinesi feriti e oltre 9mila gli uccisi, di questi 2.600 non sono mai stati recuperati. Sono dispersi sotto macerie impossibili da rimuovere se si scava con le mani. Là sotto stanno anche 1.150 bambini, mai trovati. Tra le vittime, oltre a 3.760 minori e 2.326 donne (il 67% del totale), ci sono anche 72 membri delle Nazioni unite e 135 tra medici e paramedici.
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Gli altri, esausti ma ancora vivi, operano nella metà degli ospedali che la Striscia aveva prima del 7 ottobre: il 46%, 16 ospedali su 35 non funzionano più. Ieri a fermarsi è stato il Turkish-Palestinian Friendship Hospital, l’unico oncologico dell’enclave, a causa degli attacchi aerei e della fine del carburante necessario ai generatori.
Ieri il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha “aperto” alla consegna del carburante, ma solo quando sarà finito: «Da una settimana dicono che gli ospedali stanno per terminarlo, ancora non è terminato», ha detto senza citare le 16 cliniche che hanno già interrotto le attività. Poco dopo a smentirlo è stato il premier Netanyahu: «Non ha dato nessuna autorizzazione» in merito al trasferimento di benzina.
«UN GENOCIDIO», hanno avvertito ieri sette relatori speciali per i diritti umani dell’Onu: «Restiamo convinti che il popolo palestinese è a grave rischio di genocidio. Il tempo per agire è adesso», scrivono elencando mancati aiuti, taglio dell’acqua, bombardamenti aerei su scuole e rifugi per i civili.
CHI PUÒ SCAPPA, ma sono pochissimi. Dopo le 500 persone uscite mercoledì dal valico di Rafah in Egitto, in tanti si sono affollati al grande arco che conduce fuori e agli sportelli per il controllo passaporti. A uscire sono solo gli stranieri e i palestinesi con doppia cittadinanza (400 persone, molti statunitensi e belgi, ma anche i cooperanti italiani) e 60 malati.
I bambini restano dentro, sullo sfondo dell’ennesimo appello lanciato ieri dall’Unicef, ormai quotidiani e inascoltati: «Anche la guerra ha delle regole. Il costo di questa escalation di violenza per i bambini e le loro comunità sarà tramandato alle generazioni che verranno. I bambini muoiono a tassi allarmanti e sono privati dei diritti fondamentali».
QUELLA ESCALATION di violenza non sarebbe stata nemmeno dispiegata tutta, a sentire Halevi secondo cui l’aviazione sta impiegando meno della metà della sua forza. La violenza arriva anche da terra, fino a Gaza city. «L’esercito è nel cuore di Gaza nord e negli ultimi giorni sta operando dentro Gaza City, circondandola da diverse direzioni», ha spiegato. In serata il portavoce militare Daniel Hagari ha parlato di attacchi a postazioni e infrastrutture di Hamas.
A metà pomeriggio le agenzie riportavano di duri scontri a fuoco tra forze israeliane e miliziani di Hamas nella città più grande e popolata della Striscia: l’invasione di terra è realtà da giorni e ha raggiunto le aree urbane. Hamas risponde con colpi di mortaio, granate e scontri ravvicinati con la fanteria.
UCCISO IERI il 18esimo soldato israeliano, Salman Habaka, comandante di un battaglione. Sarebbero 130, secondo Israele, i miliziani uccisi. Il timore è che alcuni siano civili: ieri la Mezzaluna rossa ha denunciato spari da veicoli militari sull’Al-Quds Hospital, con almeno due feriti, una donna e un bimbo