SALARIO ZERO. Nonostante la Direttiva Ue il governo alla camera si limita a impegni generici per il 2024. Manovra, Cgil e Uil «mobilitate». I pochi aumenti automatici previsti (pensioni e contratto badanti) tagliati o criticati
Una cameriera al lavoro, una delle tante categorie interessate dall'introduzione di un "salario minimo" - Foto LaPresse
Più che «salario minino», salario zero. Nel giorno in cui l’Istat stima il tasso di inflazione stabile all’11,8% – valore più alto in occidente – la maggioranza Meloni boccia il «salario minimo» in tutte le sue versioni, compresa quella mediata dall’ex ministero del Lavoro Andrea Orlando e che vedeva i sindacati confederali a favore: estensione erga omnes dei minimi del contratti nazionali e, solo per i lavoratori esclusi, introduzione di un salario minimo orario di 9 euro comprensivo di tutte le voci complementariì (contributi, Tfr, ferie, malattia) e definito Trattamento economico complessivo (Tec).
A GESTIRE IL DIBATTITO alla Camera è stato l’ineffabile neo sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (demiurgo del flop Quota 100 e ora Quota 103) che in poche parole si è fatto beffa perfino della Direttiva europea che impone una sostanziale introduzione del «salario minimo» nei (pochi) paesi ancora sprovvisti entro il 15 novembre 2024. Proprio i due anni di tempo-limite sono stati la ragione addotta dalla maggioranza per bocciare il provvedimento condendolo di farneticanti e contraddittori impegni. No all’introduzione del salario minimo, al suo posto il governo dovrà invece «raggiungere l’obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori attraverso una serie di iniziative, a partire dall’attivazione di percorsi interlocutori tra le parti non coinvolti nella contrattazione collettiva», «monitorare e comprendere motivi della non applicazione, avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale» (sic). I 163 voti a favore da parte della maggioranza, 121 no (M5S, Pd e Avs) e 19 astenuti (Azione-Iv). Respinti tutti i testi delle opposizioni a prima firma di Andrea Orlando (Pd), Giuseppe Conte (M5S)e Marco Grimaldi (Avs), financo quella minimale di Matteo Richetti.
In questo modo vanno al macero almeno 4 anni di lavoro fra governi e sindacati prima sulla proposta Catalfo (9 euro «soglia dignitosa valida per tutti») e poi su quella Orlando, che ieri ha portato il suo partito a votare a favore di tutte le proposte, anche quella del M5s.
Il voto è stato criticato da tutti i sindacati, perfino dalla Cisl, la più recalcitrante al «salario minimo legale»: «È paradossale che dopo mesi di proficuo lavoro anziché capitalizzarne gli esiti si ricominci da zero il dibattito», protesta il segrerario confederale Giulio Romani.
IL TUTTO AVVIENE A CONFERMA di un dibattito politico e mediatico paradossale. Tutti sostengono la gravità della situazione di impoverimento generale dovuto all’aumento dell’inflazione ma allo stesso tempo gridando e denunciando i pochi casi di meccanismi di tutela automatica che garantiscono in parte adeguamenti all’inflazione stessa.
L’esempio delle pensioni è lampante: già il 9 novembre il ministro Giorgetti aveva denunciato l’impatto nefasto per i conti pubblici (50 miliardi in 10 anni) dell’indicizzazione delle pensioni: il meccanismo di perequazione con cui l’Istat ha fissato al 7,3% medio l’aumento degli assegni per difenderli in parte dal caro-vita (all’11%). Quella dichiarazione era il prodromo del taglio ora previsto in legge di Bilancio. Indicizzazione tagliata per oltre 4,3 milioni di pensionati e risparmio per le casse statali di oltre 36,8 miliardi sempre in 10 anni.
Ieri la Cgil ha aggiunto altri dati: in legge di bilancio per il capitolo previdenza per il 2023 ci «sono solo 726,4 milioni di euro, si sottraggono al sistema ben 3,7 miliardi di euro» in gran parte per il taglio della rivalutazione delle pensioni in essere (3,5 miliardi) con i paletti stringenti che prosciugheranno Opzione donna («solo 870 uscite rispetto alle 2.900 previste») e Quota 103: platea «di sole 11.340 persone, di cui 9.355 lavoratori e appena 1.985 lavoratrici».
Il secondo esempio è più ristretto ma altrettanto illuminante. Ieri è arrivato l’allarme su colf e badanti: «il contratto collettivo scade al 31 dicembre e in assenza di un accordo, dal primo gennaio scatteranno gli aumenti automatici che prevedono l’adeguamento all’80% dell’inflazione con un incremento delle retribuzioni del 9%, insostenbile» per Assindatcolf.
I SALARI RESTANO DUNQUE in totale balia dell’inflazione e nemmeno la 13esima (per chi la percepisce) sarà detassata, come invece chiedevano i sindacati.
La partita sulla manovra intanto va avanti. La convocazione di Cgil, Cisl e Uil per mercoledì 7 da parte di Meloni ha quietato solo la Cisl: «Un risultato che premia il pressing di questi giorni». Cgil e Uil invece ieri hanno già intrapreso la via della mobilitazione, «nessuna esclusa». La Cgil nel suo Direttivo ha deciso all’unanimità di non attendere l’incontro a palazzo Chigi dando mandato alla segreteria di «mettere in campo tutte le iniziative di mobilitazioni necessarie», seppur «nel confronto con Cisl e Uil». Sulla stessa linea la Uil che nel suo Esecutivo ha deciso di «avviare un percorso di mobilitazione». La divisione dello sciopero generale dell’anno scorso Cgil-Uil riaffiora tutta.