La camera durante il giuramento di Sergio Mattarella © LaPresse
Quando Sergio Mattarella, nel discorso davanti alle Camere riunite, pronuncia il nome di Lorenzo Parrelli – il ragazzo morto sul lavoro, perché anziché essere a scuola era in fabbrica – le sue parole giungono alla fine di una lunga, insistita ostinata declinazione di cosa significhi “dignità”.
Riferita in particolare a chi, come i giovani, ne sono brutalmente, ferocemente privati perché «malpagati e relegati nelle periferie esistenziali». Dignità e poi diritti: delle donne, degli anziani, dei disabili, dei carcerati, delle vittime della mafia e della criminalità. Il mondo infernale dei più deboli.
Dignità, diritti e, su tutto, le disuguaglianze che, secondo Mattarella non sono un prezzo necessario da pagare
al Pil (come l’occupazione precaria prodotta da questo governo sembra ritenere), ma esattamente il contrario, ovvero «un impedimento alla crescita».
Può darsi che queste parole saranno presto dimenticate, con la stessa disinvoltura con la quale sono state forsennatamente applaudite dal Parlamento.
Tuttavia la nostra impressione è che questa volta sarà più difficile riporre in un cassetto un discorso, dai toni netti e assertivi, molto vicino a un programma di governo.
Sia sul piano specifico delle politiche nazionali (sui tre fronti: sanitario, economico e sociale), sia sul versante del ruolo internazionale dell’Italia. Perché, pur senza nominare la crisi dell’Ucraina, il Pluri-Presidente della Repubblica ha messo in chiaro la questione.
Ovvero come «sia inaccettabile che ora, senza neppure il pretesto della competizione tra sistemi politici e economici differenti, si alzi il vento dello scontro in un continente che ha conosciuto due guerre mondiali».
Quella campana di Montecitorio che rintocca quando, ogni sette anni, il corteo presidenziale esce dal Quirinale, ieri è sembrata risuonare più forte, come ad accompagnare, oltre che una cerimonia dai toni solenni e regali, un evento doppiamente carico di significato per i forti tratti di anomalia istituzionale che ne contraddistingue la natura.
Mattarella vuole chiarire subito quanto «la nuova chiamata sia stata inattesa», e spiegare perché «non posso e non ho inteso sottrarmi», essendo questi «tempi travagliati per tutti, anche per me».
Dunque ha dovuto e voluto accettare la volontà del Parlamento, che lo ha chiamato per la seconda volta, in quanto «massima espressione della volontà popolare». Lo ha fatto in base alla «consapevolezza» delle attese dei cittadini «che sarebbero state fortemente compromesse dal prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni».
Avrebbe potuto aggiungere che l’esito di un raddoppio del mandato presidenziale è comunque una ferita agli equilibri istituzionali e farlo presente all’assemblea che aveva di fronte (a suo tempo Giorgio Napolitano usò la frusta), ma non lo ha fatto. E’ stato un atto di benevolenza.
Più che in sofferenza per il raddoppio del mandato presidenziale, la democrazia, dice Mattarella, deve guardarsi da altri bachi che la sfiancano e la svuotano.
Da un lato la velocità dei cambiamenti «sempre più rapidi nella richiesta di risposte tempestive», senza le quali «i poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi aggirando il processo democratico». E, su un altro piano, quei «regimi autoritari e autocratici che tentano di apparire più efficienti di quelli democratici», mentre è vero il contrario perché nelle democrazie «libero consenso e coinvolgimento sociale portano a decisione più solide e efficaci».
Il richiamo alla «qualità» e al «prestigio» della rappresentanza, cioè ai partiti, non poteva suonare più disperato, un ultimo appello alle forze politiche e ai corpi sociali intermedi senza i quali non c’è cittadinanza, non c’è partecipazione, e ogni dura replica della storia è possibile.
Come duro e senza giri di parole arriva il j’accuse verso quella magistratura che semina sfiducia e diffidenza nei cittadini, lasciandoli senza certezza del diritto.
Alla fine, mentre l’ultimo anno di legislatura già fa intravedere la corsa verso le urne, è certo una cosa buona che la lettera e lo spirito della Costituzione, siano nelle mani di questo Presidente della Repubblica. Capace di accontentare tutti – standing ovation a valanga dalla sinistra alla destra passando per il centro – e non per ammiccamenti di complicità, ma con richiami forti e chiari alla politica affinché sia degna del paese che vuole rappresentare.