Si avvicina il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’armata rossa, che, con una legge del 2000, è stato istituito come “Giorno della Memoria” «al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei».
In occasione del Giorno della Memoria, la legge richiede che siano organizzate iniziative e incontri, in particolare nelle scuole «in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia, affinché simili eventi non possano mai più accadere». Come gli anni precedenti, anche quest’anno si organizzano iniziative e incontri e sugli schermi televisivi passano film che ci rammentano la discesa dell’umanità nell’inferno dei campi di sterminio.
In un paese smemorato come il nostro è essenziale coltivare la memoria, che però ha un senso solo se da essa possiamo trarre degli insegnamenti che ci aiutino a orientarci nel tempo presente, altrimenti si risolve in un mero rito necrofilo, come rinnovare le corone di fiori sui monumenti ai caduti o spolverare le lapidi. Se c’è una cosa che bisogna evitare in questa grigia alba del 2019 è quella di celebrare gli eventi del passato, enucleandoli dal presente. Invece, come osservò Alberto Asor Rosa: «Nostro compito non è ricordarlo (l’olocausto), ma pensarlo. Ricordarlo in quanto avvenimento storico è semplice: difficile è pensarlo nella tragica simultaneità e perennità dei suoi significati possibili».
E allora dobbiamo ricordare che il terreno che ha generato l’olocausto è stato seminato da una politica che ha costruito la discriminazione e l’esclusione sociale, che ha spezzato il vincolo di unità della famiglia umana, separando il destino degli uni dagli altri. Questa politica ha prodotto le leggi di Norimberga in Germania nel 1935 e le leggi razziali in Italia nel 1938 e ha istituito gli stranieri (gli ebrei, considerati un corpo estraneo alla popolazione tedesca e – di riflesso – a quella italiana) come nemici pubblici, responsabili di ogni malessere dei ceti popolari. Dopo vennero la notte dei cristalli, la guerra, i rastrellamenti, i campi di sterminio.
In un differente contesto storico e istituzionale stanno ritornando in tutt’Europa, e specialmente in Italia, i veleni di una politica protonazista, che si esprime in una ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della pelle degli altri. Questi veleni si insinuano nel corpo sociale e ci rendono indifferenti al dolore degli altri.
Ciò consente a un ignobile ceto politico di aggirare i vincoli costituzionali e di adottare misure persecutorie verso il popolo dei migranti, di spingere fuori dalla legalità anche quelli che sono regolari, di emanare norme come il c.d. decreto sicurezza che, al di là della criticabilità delle singole disposizioni, è governato dallo stesso spirito di discriminazione che ispirava le leggi razziali.
La persecuzione, alla fine produce morte. L’Oim, l’Organizzazione per le migrazioni dell’Onu, stima che da inizio anno sono quasi duecento i morti o i dispersi nel Mediterraneo: negli ultimi 5 anni sono stati 17.644. La responsabilità di questo genocidio è dell’intera Europa, ma il nostro paese sta dando un forte contributo delegando il “salvataggio” agli aguzzini libici e vietando lo sbarco alle navi che soccorrono i naufraghi.
È rimasta famosa la frase disperata e profetica che il pastore tedesco Dietrich Bonhoeffer (ucciso dai nazisti nel lager di Flossemburg il 9 aprile 1945) pronunciò dopo “la notte dei cristalli” del 9 novembre 1938: «Solo chi grida per gli ebrei può cantare il gregoriano». Parafrasando Bonhoeffer potremmo dire: solo chi grida per gli immigrati può cantare nel giorno della memoria.
Domenico Gallo
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