I GIORNI DELL'IRAN. Le dichiarazioni del capo della magistratura testimoniano solo la spaccatura nel Paese. Ma la rivolta non accenna a fermarsi
Donne partecipano alla protesta nella provincia del Sistan e Balucistan - Getty Images
Serrande chiuse da ieri per i bottegai delle città iraniane, in solidarietà con le proteste, o forse spaventati per i possibili danni durante lo sciopero generale di tre giorni che culminerà il 7 dicembre. In coincidenza con la giornata dedicata agli studenti universitari, un raduno è stato organizzato in piazza Azadì, la piazza della libertà, nella capitale Teheran. Come in passato, dopo lo sciopero si prevede una continuazione delle proteste. I manifestanti non hanno intenzione di fermarsi, perché altrimenti sarebbe vano il sacrificio di almeno 470 persone uccise nella repressione, tra cui 64 minorenni. E a nulla serve la notizia, non confermata dal ministero degli Interni di Teheran, dell’«abolizione» della polizia morale. A comunicarlo era stato il capo della magistratura, che non è però il soggetto preposto alla buoncostume e in ogni caso si era limitato a comunicare che le funzioni della polizia morale erano state «sospese».
GIÀ A SETTEMBRE, nei giorni immediatamente successivi alla morte di Mahsa Amini, alcuni deputati avevano ipotizzato una revisione e addirittura l’abolizione della polizia morale giacché invisa alla popolazione. Il deputato Jalal Rashidi Koochi aveva dichiarato che queste pattuglie «non ottengono alcun risultato, se non quello di causare danni al Paese». Il presidente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, già sindaco di Teheran, aveva chiesto che la condotta della polizia morale fosse oggetto di un’inchiesta: «Per evitare che si ripeta quanto accaduto a Mahsa Amini», aveva affermato il presidente del Parlamento, «i metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti». Ancora più radicale era stato un altro parlamentare, Moeenoddin Saeedi, che intendeva proporre l’abolizione totale della polizia morale e infatti aveva dichiarato: «A causa dell’inefficacia del Gasht-e Ershad nel trasmettere la cultura dell’hijab, questa unità dovrebbe essere abolita, in modo che i bambini di questo Paese non ne abbiano paura quando vi si imbatteranno».
ORA, A DUE MESI da quelle dichiarazioni, il fatto che il capo della magistratura si permetta di avanzare l’ipotesi di una «sospensione» della polizia morale, ma questo non venga confermato dal ministro degli Interni preposto a questo corpo speciale, è la dimostrazione della frattura all’interno della leadership della Repubblica islamica: da una parte vi è chi sarebbe disposto al compromesso, dall’altra vi è l’ala intransigente. Tra questi ultimi vi sono i paramilitari basiji, la polizia e le forze di sicurezza che «non esiteranno a fronteggiare duramente i rivoltosi, i criminali armati e i terroristi che sono stati assoldati dai nemici». Nella dichiarazione dei pasdaran si legge: «Dopo la sconfitta della nuova sedizione, creata dai nemici, il sistema sacro della Repubblica islamica continuerà con forza a realizzare la sua causa e sconfiggerà il fronte unito dei nemici».
IN OGNI CASO, se anche la polizia morale dovesse abdicare, questo non implicherebbe l’abolizione dell’obbligo del velo e tanto meno maggiore libertà perché a pattugliare le strade restano poliziotti e militari. E infatti il deputato Hossein Jalali ha dichiarato che «il prezzo da pagare per chi non porterà il velo nel nostro Paese si alzerà». Membro della commissione cultura del parlamento, si è espresso nell’ambito di un’assemblea nella città santa di Qum, facendo riferimento a un piano da mettere in pratica nelle prossime due settimane riguardo all’uso del velo per le donne, già obbligatorio in pubblico dopo la fondazione della Repubblica islamica nel 1979.
ALLA LUCE dell’uso costante della violenza contro il popolo, la leadership iraniana ha perso ogni legittimità. Al di là delle fratture nella cabina di comando, il sistema politico non è riformabile: tutti coloro che ci avevano provato sono in carcere, agli arresti domiciliari, oppure hanno scelto la via dell’esilio. Sul fronte internazionale, la data da tenere a mente è il 14 dicembre, quando si riunirà il comitato delle Nazioni Unite sulle questioni di genere.
MEDITERRANEO . Si cerca di nascondere il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico
Salvataggio della Open Arms al largo della Libia - Ap
Il filo comune che unisce chi criminalizza le Ong che salvano vite umane ripropone le stesse accuse stantie e lo stesso metodo delle «regole speciali». La logica, già rodata, è quella di proporre disposizioni specifiche per un gruppo, le Ong, sottintendendo così che quest’ultime non rispettano le regole, «fanno i furbi», e c’è quindi bisogno di un codice di comportamento in più. Si cerca di nascondere così il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico. Le navi mercantili, di cui ha parlato a sproposito il ministro Tajani durante la riunione con i suoi omologhi Ue, se devono intervengono, ma se possono se ne guardano bene, perché rischiano di dover fermare la loro attività commerciale per settimane o mesi. Le ipotesi circolate per questo nuovo codice sono davvero ridicole e imbarazzanti e si ripresentano nella veste di regole di comportamento senza le quali si possono subire pesanti sanzioni amministrative e, soprattutto, non si può arrivare sulle coste italiane.
Proviamo ad analizzare le principali.
1. Le Ong devono dimostrare che intervengono solo in caso di pericolo: gommoni e barchini che possono ospitare 10/20 persone e ne ospitano 5/10 volte tanto sono oggettivamente in pericolo. I comandanti sono obbligati a intervenire, altrimenti ne rispondono personalmente penalmente.
2. Le Ong devono comunicare il loro intervento e coordinarsi con le autorità competenti: lo fanno sempre, c’è una ampia documentazione pubblica e disponibile, e ogni volta mandano alle diverse autorità dei Paesi coinvolti tutte le informazioni. Sono le autorità che non rispondono mai, per lavarsene le mani e non indicare, come la legge impone, il posto sicuro più vicino.
3. Si chiederebbe alle Ong di non comunicare la loro posizione alle imbarcazioni che stanno per lasciare le spiagge libiche o tunisine, cioè le si accusa di dare appuntamenti a chi deve ancora partire. Una accusa che, secondo il titolare della Farnesina, sarebbe sostenuta da documenti di Frontex. La stessa Agenzia Europea che è stata più volte accusata di praticare respingimenti, che lo ricordiamo sono illegittimi, e il cui direttore, a seguito di una inchiesta dell’agenzia anti frode europea, si è dimesso a fine aprile di quest’anno. Non un fonte neutra e autorevole quindi. Una illazione, quella usata da Tajani, del tutto infondata, inventata appositamente per collegare le Ong ai trafficanti. Un collegamento privo di prove, come dimostrano i tanti procedimenti giudiziari italiani: una vera diffamazione.
Come nel caso del suo degno predecessore, questo nuovo codice imporrebbe comportamenti che in gran parte sono previsti dalla legge e che le Ong rispettano alla lettera da sempre, introduce elementi illegittimi e impraticabili e, soprattutto, alimenta il sospetto che chi opera nel Mediterraneo per fare attività di ricerca e salvataggio lo fa in cattiva fede e in combutta con gli scafisti. Scafisti che, da anni, è noto siano in gran parte gli stessi che ricevono soldi, strumentazione e formazione da parte del governo italiano e dell’Ue. Informazioni che si possono leggere nei documenti delle istituzioni internazionali e dei tribunali italiani e non nei fogli di propaganda di partiti e esponenti politici.
Intanto i governi di Italia, Grecia, Cipro e Malta firmano una dichiarazione congiunta del tutto ingiustificata e mistificatoria. Richiamano la legislazione internazionale di fatto negandola e cercano di criminalizzare chi salva vite umane. Ripropongono il vittimismo per gli sbarchi, senza tenere in considerazione che i governi si fanno carico dei richiedenti asilo, che arrivano anche via terra e via aereo: incomprensibile il motivo per cui solo chi arriva via mare andrebbe redistribuito.
Non è di un codice che c’è bisogno e neanche di inutili nuovi accordi per impedire alle persone di scappare da guerre e persecuzioni o di nuove procedure per poter rimpatriare più facilmente le persone senza un permesso di soggiorno, obiettivi sui quali, c’è da scommettere, si concentreranno i governi nelle prossime settimane. In tutti questi anni abbiamo assistito a lunghissime trattative nei numerosi incontri di ministri Ue, conclusesi sempre con la promessa di modifiche legislative e interventi volti solo a impedire sempre di più ogni mobilità alle persone in cerca di protezione e a migliorare l’efficacia delle attività di respingimento e rimpatrio.
Nulla su attività di ricerca e salvataggio pubblica e nulla su canali d’accesso legali e sicuri. Quindi nulla di nuovo. Sempre il vecchio e stantio razzismo di stato, che favorisce e alimenta i trafficanti e produce morte e ingiustizie.
Scossa di terremoto avvertita anche a Ravenna
Questa mattina intorno alle 7 è stata avvertita anche a Ravenna la scossa di terremoto di intensità 5.7 della scala Richter con epicentro a largo della costa marchigiana a una profondità di 7,6 chilometri.
Il Comune di Ravenna sta verificando eventuali ripercussioni sul territorio e chiede ai cittadini di segnalare eventuali danni alla centrale della Polizia locale 0544.219219 – 0544.482999.
Qualora necessario saranno forniti ulteriori aggiornamenti.
Si ricordano i consigli su come comportarsi e cosa fare in caso di terremoto: https://www.comune.ra.it/aree-tematiche/protezione-civile/manuale-di-protezione-civile-per-i-cittadini-come-comportarsi-quando-scatta-lemergenza/rischio-sismico/
LE ASPETTATIVE DI FI E CENTRISTI. Dalle pensioni allo scostamento di bilancio all’autonomia: i primi nodi
Matteo Salvini e Antonio Tajani al giuramento del governo - Lapresse
La gestazione del primo governo compiutamente di destra, senza più velleità centriste, è stata breve, intensa e travagliata. Quel travaglio, però, non si è mai librato al di sopra della pura sfida di potere, dei duelli sul manuale Cencelli riveduto e corretto. Nel giorno «dell’orgoglio e della responsabilità» il livello delle fibrillazioni non s’innalza. Sempre questione di potere, di deleghe e sottosegretariati, rimane.
Matteo Salvini, che non ha mai avuto ben chiara la distinzione tra un dicastero e un palco da comizio, contava sulla gestione dei fondi del Pnrr per restaurare l’ammaccata immagine. Giorgia la Prima Donna lo ha sgambettato facendo scivolare parte sostanziosa di quei fondi nelle mani di Raffaele Fitto, con la delega al Pnrr, e il Capitano non ha gradito la sorpresa. Non che sia tagliato fuori dal prevedibile show delle Grandi opere ma dovrà dividere il palco e contendere il potere decisionale con Fitto.
In compenso il nuovo ministro delle Infrastrutture dovrebbe riuscire a tenersi stretto il controllo sui porti, altro strumento di potenziale propaganda prezioso. Se l’immigrazione dovesse scalare di nuovo la classifica delle paure degli italiani, Salvini ha già dimostrato sin troppo in abbondanza di saper usare il controllo su porti e sbarchi per occupare l’intera scena. Nello Musumeci, ministro delle Politiche del mare oltre che del Sud, non concorda con questa ripartizione dei poteri ma il Codice della Navigazione, art. 33, conforta il leader leghista e si può scommettere che farà fuoco e fiamme per impedire che venga modificato.
Sui sottosegretariati la tensione è doppia: con i centristi rimasti all’asciutto nella squadra di governo e con la solita Fi, perché lo sconfitto di Arcore non ha rinunciato a mettere il piedino nella Giustizia o nel Mise. Il progetto iniziale della premier era dividere i sottosegretariati in un terzo per ciascuna delle principali forze di governo. Sbatte però con le attese fameliche dei centristi, che si aspettano cospicuo risarcimento, e con quelle di Fi, che pretende di avere voce in capitolo nei dicasteri che sono stati negati al partito azzurro.
Prima o poi, però, il governo e la maggioranza dovranno decidersi a passare dal gioco delle poltrone ai conti con una realtà drammatica. Il primo scoglio potrebbe essere la riforma delle pensioni perché, senza intervento tempestivo, il primo gennaio rientrerà in completo vigore la Fornero e per Salvini sarebbe da suicidio. Qui però una soluzione si troverà perché il ripristino dell’odiata riforma del governo Monti farebbe perdere la faccia non solo alla Lega ma all’intero centrodestra.
Subito dopo, se non subito prima essendo sul tavolo una legge di bilancio da varare col fiato sul collo, arriverà il turno dello scostamento di bilancio. In inverno si avvertiranno in pieno gli effetti della crisi e senza fare nuovo debito fronteggiarla, anche solo per mitigarne la ferocia, sarà molto difficile. Salvini è pronto a tornare alla carica e Confindustria gli darà man forte. Una premier in cerca di legittimazione a Bruxelles e Francoforte vuole evitare il doloroso passo a ogni costo. Se non arriverà in provvidenziale soccorso l’Europa a novembre le scintille saranno assicurate.
Altrettanto nevralgico il capitolo Autonomia differenziata. Le regioni del nord, più che mai azioniste di maggioranza del Carroccio, sono a un passo dal perdere la pazienza. Ora che il governo è stato saldamente conquistato la reclamano senza rinvii, contano sul mago Calderoli alle Regioni per concludere presto. La cultura di FdI, però, tutto è tranne che federalista senza contare che i Fratelli devono tenere in alta considerazione interessi e aspettative della massa di elettori che li ha votati al Sud.
La politica estera potrebbe riservare amare sorprese ma non per lo scambio di messaggi sdolcinati tra il sovrano d’Arcore e lo zar di Mosca. Tutti nel governo si professano «atlantisti ed europeisti». Il problema è che atlantismo ed europeismo non si possono affatto giustapporre e se gli interessi, già solo in parte coincidenti, dovessero divaricarsi la premier spingerebbe in direzione dell’asse Usa-Uk-Europa dell’est, Fi in quella dei Paesi occidentali e di Bruxelles. Tra tutti i guai possibili sarebbe il più grosso di tutti.
L'INIZIATIVA CONGIUNTA. Un gruppo di diplomatici non più in servizio chiede la ripresa dei negoziati per fermare l'escalation delle armi
La guerra in Ucraina prodotta dall’aggressione russa sta degenerando verso scenari devastanti, che potrebbero mettere in pericolo la vita di milioni di persone e sfociare in un “inverno nucleare”. A fronte dell’annessione illegale del Donbass e di due altre regioni ucraine, approvata dalla Duma dopo il recente referendum farsa, il governo di Kiev ha firmato un decreto che vieta qualsiasi trattativa con Mosca e ha chiesto ufficialmente l’adesione alla Nato, pur consapevole che la richiesta è irricevibile.
Putin ha già dichiarato che se la sicurezza nazionale russa fosse messa in pericolo dall’avanzata ucraina sostenuta dalla Nato, il ricorso all’arma atomica diverrebbe plausibile, in accordo con la dottrina strategica militare russa.
La reazione della Nato, di fronte all’impiego dell’arma nucleare tattica, sarebbe devastante ed esporrebbe la Russia a gravi rappresaglie, che sfocerebbero in uno scontro nucleare simmetrico.
Dopo mesi di guerra e di perdite umane le posizioni di entrambe le parti si sono irrigidite. I falchi russi chiedono un utilizzo della forza senza remore, fino all’uso dell’arma nucleare tattica; ma anche nel campo occidentale molteplici sono le pulsioni per una continuazione del conflitto fino alla resa totale di Mosca.
A due giorni dalle politiche in Italia, il 23 settembre i giovani di Fridays for Future manifestano in 70 piazze del nostro Paese e 540 città in tutto il mondo, per chiedere alla politica azioni concrete per fermare il riscaldamento globale, tema ignorato in campagna elettorale
Scendono di nuovo in piazza oggi, venerdì 23 settembre, con cortei in oltre 70 città italiane e in 540 centri in tutto il mondo, i giovani di Fridays For Future per lo sciopero globale per il clima, che chiede alla politica azioni concrete per fermare il riscaldamento del Pianeta. E lo fanno proponendo un’agenda ricca di idee, cose da fare nell’immediato che avrebbero un impatto positivo nell’affrontare la crisi climatica e sociale.
Da noi la manifestazione, che ha al centro lo slogan People not Profit nella convinzione che è necessario dare priorità alle persone e non ai profitti, ha un significato in più: si tiene a due giorni dalle elezioni e vuole riportare l’attenzione su un tema fondamentale per la sopravvivenza della vita sulla Terra, la cui rilevanza è marginale nell’agenda politica nazionale e internazionale.
La Cgil aderisce e sostiene la mobilitazione a livello nazionale e territoriale, per la giustizia climatica e sociale, la pace, la piena e buona occupazione, la Fiom partecipa alle iniziative in diverse città, la Flc, categoria dell’istruzione, dell’università, della ricerca, ha indetto una giornata di sciopero: