da:
http://www.azione.ch/attualita/dettaglio/articolo/un-14-maggio-speciale-per-israele.html
Eventi – Oggi, lunedì, l’attuale sede del consolato Usa a Gerusalemme nel quartiere di Arnona – giorno della dichiarazione d’indipendenza israeliana – assume le funzioni di ambasciata Usa in Israele. 14.05.2018
di Marcella Emiliani
«Israele è stato creato perché il popolo ebreo, che non si è mai sentito sicuro in nessuna parte del mondo, avesse una casa. Oggi, dopo 70 anni di successi clamorosi in tutti i campi, Israele con tutta la sua forza forse è diventato una fortezza. Ma non è ancora una casa. Gli israeliani non avranno una casa finché i palestinesi non avranno la loro».
Era il 17 aprile scorso e così si esprimeva David Grossman, scrittore israeliano di fama internazionale, nel corso di una cerimonia che commemorava a Tel Aviv il 70.mo compleanno dello Stato di Israele che sarebbe stato ufficialmente festeggiato il giorno dopo. Secondo il calendario ebraico, infatti, quello che per il nostro calendario gregoriano è il 14 maggio quest’anno è caduto il 18 aprile, ma lo sfasamento temporale poco importa. L’importante è la ricorrenza di una sorta di miracolo quale è stata il 14 maggio 1948 la Dichiarazione di indipendenza di Israele proclamata dal padre della patria, David ben Gurion nel Museo dell’Arte di Tel Aviv. Nel corso della notte, truppe di otto paesi arabi attaccarono il nuovo Stato che pur tra mille difficoltà riuscì ad avere la meglio in quella che gli israeliani chiamano la guerra di indipendenza, gli arabi e i palestinesi – invece – la Nakba, la catastrofe.
Se infatti gli ebrei credettero di aver ritrovato la propria casa, i palestinesi persero la loro e i «fratelli» arabi accorsi nel 1948 per distruggere «l’entità sionista», in 70 anni per risolvere il contenzioso israelo-palestinese non seppero far altro che guerre, regolarmente perse contro le Israeli Defense Forces (Idf). In contemporanea chiudevano i palestinesi in miseri campi profughi, impedendo loro di ottenere lavori stabili e regolari sul proprio territorio e men che mai concedendo loro la cittadinanza. L’unica ad averlo fatto è stata la Giordania. Oggi la distanza tra israeliani e palestinesi è abissale. Dal 1948 Israele è diventato un paese all’avanguardia nella ricerca scientifica e tecnologica (la start-up nation), viaggia a tassi di crescita che nell’ultimo decennio hanno oscillato dal 4 al 9% del Pil e vanta 11 premi Nobel. I palestinesi invece non solo vivono in maggioranza sotto la soglia della povertà nei campi profughi arabi ma anche in Cisgiordania terra-limbo dell’Autorità Nazionale palestinese (Anp) ormai zeppa di colonie ebraiche, e decisamente in miseria nella Striscia di Gaza, ovvero l’Hamasland, attorno alla quale Israele ha istituito un blocco totale dal 2007. Ed è proprio Hamas a voler rovinare la festa del 70.mo compleanno di Israele. Per il 14 maggio ha promesso che la Marcia del Ritorno proclamata il 30 marzo scorso si estenderà a Gerusalemme non solo per reclamare la terra perduta, ma anche per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, forse alla presenza dello stesso Trump.
E qui arriviamo al cuore del discorso di Grossman del 17 aprile, ma soprattutto alle chiavi del futuro di Israele. Se è vero che i palestinesi
ancor oggi non hanno uno Stato, è altrettanto vero che dal 1948 Israele non ha mai avuto confini certi e accettati a livello internazionale. I confini tracciati per lo Stato ebraico dalla risoluzione Onu 181 del 29 novembre 1947 al momento della spartizione della Palestina storica sono stati modificati ad ogni episodio del conflitto arabo-israeliano ma soprattutto nel 1967 quando, con la guerra dei Sei giorni, Israele conquistò la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai strappandole all’Egitto, la Cisgiordania con Gerusalemme Est sottraendola alla Giordania e le Alture del Golan alla Siria. La penisola del Sinai venne poi restituita all’Egitto col Trattato di pace di Camp David del 1979, Gerusalemme Est fu annessa nel 1980 e le Alture del Golan nel 1981. Quanto alla Striscia di Gaza, è stata riconsegnata unilateralmente ai palestinesi nel 2005 dall’allora primo ministro Ariel Sharon.
Fino al 6 dicembre 2017 quando il presidente americano Trump annunciò lo spostamento dell’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, i palestinesi, parte dell’opinione pubblica israeliana e la maggioranza della comunità internazionale ritenevano che il principio Terra-in-cambio-di-pace avrebbe consentito, prima o poi, la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Ma spostando l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme Trump in pratica ha legittimato l’annessione di Gerusalemme Est allo Stato ebraico andando contro il dettato della legge internazionale che non consente l’annessione di terre conquistate con le armi. Questo ha sbilanciato gli Stati Uniti sulle posizioni israeliane portando il presidente dell’Anp, Abu Mazen, nonché Hamas a ripudiare qualsiasi futuro negoziato con Israele che sia mediato dagli Usa, secondo loro broker non più «onesti e affidabili». Detto in parole povere Trump ha sposato la prassi dei «fatti compiuti» tipica di Israele e ha accelerato la creazione di un nuovo asse di alleanze ispirate alla realpolitik tra Stati Uniti-Israele-Arabia Saudita – Emirati del Golfo in funzione anti-iraniana, relegando la causa palestinese al fondo dell’agenda araba e di quella internazionale e lasciandola in balia di manifestazioni come la Marcia del Ritorno che – come era prevedibile – per ora ha registrato solo un massacro di palestinesi senza alcun risultato politico.
Lo stesso Mohammed bin Salman, erede al trono dell’Arabia Saudita, il 3 maggio scorso parlando ad organizzazioni ebraiche a New York ha affermato che «negli ultimi decenni la leadership palestinese ha perso un’opportunità dopo l’altra e ha respinto tutte le proposte di pace che le sono state fatte... È ora che i palestinesi accettino di sedersi al tavolo dei negoziati, oppure stiano zitti e smettano di lamentarsi». Il premier israeliano Netanyahu ovviamente ne ha goduto ma l’ombra minacciosa di Teheran (ultima arrivata nella strumentalizzazione della causa palestinese) e la massa dei palestinesi infuriati che continuano a farsi uccidere inseguendo l’utopia del ritorno sono le due bombe ad orologeria più pericolose che minacciano lo Stato ebraico.